Charles Leclerc

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Di attimi.

Di questo abbiamo sempre vissuto.

Momenti rubati, luoghi nascosti, corse contro il tempo.

Eravamo graffi, morsi e lividi sulla pelle.

Eravamo fuoco e fiamme, una miscela di rabbia e paure inespresse.

Eravamo la nostra lama e il nostro scudo.

Bruciavamo sotto il nostro tocco, ci scottavamo urlando dal dolore, eppure, tornavamo sempre a sfiorarci.

Mi guardai il polso esile passando delicatamente un dito sulla pelle chiara, segnando il passaggio delle sue mani che mi stringevano forte e poi mi lasciavano andare. Il dito scivolò fino ad accarezzare le dita magroline, quelle dita che per anni sono state intrecciate alle sue, strette e baciate lentamente. Disegnai la forma delle vene blu lungo la mano e il polso. Potevo quasi sentire il sangue scorrere caldo, il pulsare lento del mio cuore, la fragilità del mio corpo. Mi alzai trascinandomi con passo lento allo specchio appeso in un angolo della mia camera angusta, avvolta nel buio della notte. Mi guardai provando a disegnare le curve della mia figura, a scorgere le ossa sporgenti nel chiaro della luna, che flebile entrava dalla finestra alle mie spalle. È questo che resta di me? Mi chiesi continuando a lisciare ogni centimetro di pelle nuda. Il viso scavato, il collo debole, le labbra prive di colore. Sussultai quando il telefono vibrò sul comodino accanto al mio letto. Mi avvicinai per rispondere alla chiamata strascicando sul legno chiaro a piedi nudi.

<<Pronto>> Sussurrai portandomi il telefono all'orecchio, ma nessuno rispose. Guardai l'orario, segnava le tre del mattino ed immediatamente capii chi fosse a chiamare. <<L'insonnia è tornata.>> Sorrisi sedendomi sul letto e abbassando lo sguardo verso i nudi piedi che penzolavano irrequieti. <<E noto anche che non ti sei tolto il vizio di telefonare le persone alle tre della notte.>>

<<E tu non hai perso il vizio di rispondere alle chiamate nel pieno della notte.>> Il cuore si arrestò per un secondo al suono di quella voce roca, non la sentivo da mesi, ciò nonostante, non l'avevo mai dimenticata. Viveva limpida nei miei ricordi, indelebile come una cicatrice.

<<Ti dispiace?>> Gli chiesi speranzosa di una risposta negativa, ma Charles non rispose. Sentivo solo il suo respiro farsi più pesante. <<Perché?>>

<<Perché cosa?>> Chiese a sua volta, il tono dallo stampo sempre indecifrabile.

<<Perché mi hai chiamato?>> Specificai mentre gli occhi mi bruciavano e lacrime salate rigavano lente la mia guancia arrossata.

<<Perché non riesco a dormire.>> Mormorò e io risi, risi di dolore mentre la rabbia si faceva spazio nel mio stomaco trascinando con sé ogni pensiero lucido, ogni briciolo di razionalità che mi restava. Mi portai una mano tra i capelli, stringendo forte e chiudendo gli occhi. Respirai profondamente cercando di calmare il battito violento del mio cuore, il petto mi faceva male e le mie mani mi tremavano. Odiavo quei momenti, quando lo stomaco si contorceva su se stesso, il fegato bruciava fino a farmi perdere il controllo e venivo avvolta nel buio. Lasciai cadere il cellulare al mio fianco, tastando il letto, carezzando il tessuto morbido delle lenzuola bianche. Feci lo stesso con l'altra mano, lasciando i capelli liberi di cadere leggeri sul volto imperlato dal sudore freddo, dovevo sentire il contatto con il mondo circostante, ricordami che vivevo, che ero forte e che niente mi avrebbe controllata. Tenni gli occhi chiusi mentre mi toccavo le gambe e contavo i miei respiri. La rabbia stava lasciando il posto alla paura e la paura era un'emozione peggiore. <<Emma.>> Mi chiamò lui e da quel momento sbarrai gli occhi accecati da una rabbia che non ero più in grado di controllare. Urlai alzandomi di scatto, le lacrime correvano come fiumi sul mio volto, il fegato mi bruciava, la testa mi stava per scoppiare e le mie mani sembravano avere vita propria lanciando per terra tutto ciò che si trovava nella loro direzione. Camminai in tondo per la stanza cercando di mettere a fuoco un qualsiasi oggetto, ma non vedevo niente, solo il buio, e non sentivo niente, nemmeno quando calpestai i cocci di vetro della lampada gettata con violenza sul pavimento che mi tagliarono la pianta del piede. Urlai ancora e ancora portandomi le mani ai capelli, stringendomi forte il capo e sperando che andasse via, che la rabbia andasse via e mi lasciasse in pace. Urlavo e piangevo, accovacciandomi su me stessa e stringendo le gambe attorno al petto. Mi cullai stringendomi ancora più forte, sperando che se avessi stretto abbastanza forte avrei soffocato la rabbia che mi montava dentro.

Formula 1 - One shot [Richieste chiuse]Where stories live. Discover now