Capitolo 19: "Ora ho ciò che di più simile posso paragonare ad una famiglia"

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Natale...
Non avevo mai festeggiato quella festa, la ritenevo inutile, falsa, ipocrita; tutte le persone, per un solo giorno all'anno, diventavano gentili e disponibili, anche quelle che un secondo prima ti torturavano sino allo svenimento. Non avevo mai ricevuto un regalo di Natale durante la mia infanzia, solitamente io e mio fratello cercavamo di rincuorarci in quel giorno così speciale scambiandoci lavoretti fatti a mano con il legname, i bastoncini, i petali dei fiori e gli aghi degli alberi sempreverdi. Non era un granché, certo, ma facevano in modo che lo spirito natalizio non morisse dato che in casa non c'era nemmeno una decorazione appesa, ed era sempre un piacere scambiarci quei piccoli lavoretti fatti con le nostre mani. Non è il regalo che importa, ma il gesto.
All'HYDRA la piccola sorpresa che mi aspettava sotto l'albero era o un giorno senza tortura o, addirittura, un giorno consecutivo sotto la "Squasciacervello", ovvero la sedia per l'elettroshock. Anche da loro lo spirito natalizio non mancava, evidentemente.
Avevo solo brutti ricordi riguardo al Natale, così tanto da arrivare ad odiare profondamente quella festività.
Ma non l'avevo mai trascorsa con gli Avengers.
Quando mi alzai venni investita da un intenso profumo di marzapane e pancake, che mi fecero venire l'acquolina in bocca. Sentii i passi di Bucky avvicinarsi sempre di più al letto, scanditi dal frequente clagore delle dog tags che rimbalzavano sul suo petto ad ogni passo. Feci finta di dormire ma, quando tese la mano per scuotermi i capelli, afferra il suo polso e lo ribalta sul letto, salendo sopra di lui. Scoppiammo entrambi a ridere, Barnes più stupito che altro.
<<Da quanto sei sveglia, Moye Schast'ye?>> domandó, stampandomi un bacio tra i capelli. Lo aiutai ad alzarsi, ricambiando il gesto.
<<Abbastanza da averti sentito arrivare, Moy spasitel>> risposi. Un piccolo sorriso gli increspó le labbra, lasciandosi sfuggire un invisibile sospiro. Ci scambiammo uno sguardo complice e, dopo esserci sfidati non verbalmente, partii la cosiddetta "corsa agli armamenti"; non c'era nulla di pericoloso in questa sfida, essa consisteva nell'arrivare per primi in sala da pranzo. Grazie ai miei anni passati a correre via sia dall'HYDRA che dallo SHIELD, potei vantare del titolo di "Vincitrice dell'edizione Natalizia", con conseguente protesta di Barnes perché secondo lui avevo barato.
<<I bambini di Clint fanno meno storie, dovreste vergognarvi voi due>> disse Natasha, separandoci. Vedevo e quasi percepivo lo sforzo immane che la ragazza stava sopportando per non scoppiare a ridere, cosa che probabilmente ci avrebbe incentivato a continuare il battibecco. Proprio in quel momento Stark decise di fare la sua solita entrata da diva, seguito da uno Steve ancora in pigiamone felpato e un Sam non troppo sveglio: entrambi avevano optato per rimanere in pigiama, e francamente non li biasimavo; faceva un freddo impressionante fuori dal Compound e, nonostante l' efficace riscaldamento di Tony che rendeva bollente persino il pavimento, gli spifferi d'aria siberiana si infiltravano insidiosamente nelle più minuscole fessure dell'edificio, facendoci gelare dal freddo ogni volta che ci passavamo vicino. Non che potessi criticare il loro abbigliamento, dato che il mio maglione natalizio era molto simile, se non uguale, ad un pigiama. Quella buona anima di Clint aveva preparato la colazione per tutti, e si stava cimentando nel preparare il pranzo per il resto della famiglia che ci avrebbe raggiunto a mezzogiorno. Sicuramente gli avrei dato una mano dopo, e avrei convinto Barnes a seguirmi. Ci sedemmo tutti intorno al tavolo, chiacchierando allegramente con la bocca ripiena di pancake, sciroppo d'acero e succo di lampone fatto in casa, una vera prelibatezza di cui non conoscevo l'esistenza. Non sempre avevamo l'opportunità di fare colazione tutti insieme, alcuni di noi erano in missione, altri dovevano fare report allo SHIELD in città, altri ancora potevano rimanere solo per poco alla base, perciò quando era possibile ci riunivamo tutti insieme sotto la marea di dolciumi che Clint preparava e ci godevamo insieme il pasto più importante della giornata.
Se in molti, Barnes compreso, erano preoccupati per i regali, io ero piuttosto tranquilla: avevo comperato con largo anticipo tutto il materiale necessario, ed ero stata capace persino di realizzare una piccola sorpresa per ognuno dei miei amici. Quanto a Bucky, mi ero dovuta prendere la briga di aiutarlo a scegliere quasi tutti i regali, a parte per quello di Steve, Sam e Nat; era veramente una frana nel decidere, soprattutto se si trattava di qualcosa che non sarebbe ipoteticamente potuto piacere alla persona. Quel povero cucciolo di Wallabi era preoccupato che a nessuno piacesse il suo regalo, e che tutti gli avrebbero detto di sì solo per cortesia.
Lo osservai attentamente, percependo il leggero nervosismo che, sempre più velocemente, traspariva sul suo volto, nonostante i vari tentativi per nasconderlo. Gli scoccai un sorriso rassicurante, ricordandogli che nulla sarebbe andato storto. Aveva un continuo bisogno di rassicurazioni, e il ciò diceva molto sulla sua persona, sulla sua personalità; stava cercando di recuperare ed riattaccare i pezzi di quello che era lui una volta, voleva essere simile a chi era prima dell'HYDRA, ma non capiva l'importanza di andare avanti. Mascherava le sue crepe con la spavalderia, la sicurezza, ma sotto sotto potevo vederlo, spezzato più che mai.
Una volta gli raccontai del Kitsungi, la cosiddetta "arte che risalta le ferite", spiegandogli come un semplice vaso di ceramica rotto potesse diventare ancora più bello grazie alle sue cicatrici; lui mi ascoltó attentamente, con un'innocenza che solo i bambini possedevano, mentre i suoi occhi brillavano di una nuova luce: la luce della speranza. Iniziai piano piano a dipingergli alcune crepe dorate sul braccio di vibranio e sul moncherino, la parte martoriata della spalla sinistra, un rito che divenne abitudinario da quel giorno in poi. Forse proprio dall'idea del Kitsungi Shuri si era ispirata, dato che le venature del braccio Wakandandiano erano in oro.
Gli feci l'occhiolino, rassicurandolo.
Lui era troppo insicuro, e io sarei stata al suo fianco per aiutarlo a credere un po' di più in sé stesso.
Io ci sarei stata sempre per lui.
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L'ora del pranzo arrivó prima del previsto e, con poco preavviso, la sala da pranzo si riempì di amici, familiari ed ex aiutanti della squadra; Peter Parker, Doctor Strange, Re T'Challa, Shuri, Okoye e Aio, la moglie e i figli di Clint, Pepper e Morgan, Fury, Maria Hill, Coulson, Peggy e un piccolo nucleo famigliare composto da una certa Yelena, Alexiei e Melina (famiglia di Nat, a detta sua). Il clima di complicità ed amicizia era travolgente, confortante, in poche parole riscaldava il cuore.
Ebbi molti problemi a salutare il Re e la principessa del Wakanda che, nonostante mi fossi preparata adeguatamente per rivolgermi a loro con tutto il rispetto e la stima possibile, mi "obbligarono" a dargli del tu, sorridendo quando gli davo del voi. Una questione diversa fu per le due Dora Milaje, a cui diedi il benvenuto con il saluto Wakandiano, sorprendentemente ricambiato. Peter Parker, o meglio conosciuto come Spiderman, era un vero e proprio cucciolo curioso, la voglia di vivere fatta a persona; si vedeva quanto il ragazzo volesse bene a Tony e viceversa, e il comportamento così pieno di vita e gioioso del ragazzo mi scaldava il cuore: molti ragazzi della sua età avevano veramente dimenticato cosa volessero dire le parole educazione, altruismo e aiutare il prossimo. Il fatto che si riferisse a Tony come signor Stark dimostrava ampiamente il rispetto che il ragazzo provava per il suo mentore.
Mangiammo tutti insieme, chiacchierando come una vera e propria famiglia, tutti uniti sotto un solo simbolo: la "A" di Avengers. Sorrisi. Non ci fu un vero e proprio motivo per cui lo feci, sorrisi e basta. Perché stavo bene. Perché mi sentivo a casa. Perché, per quanto fossero strambi, gli Avengers erano l'unica cosa che potevo chiamare famiglia.
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Era una tradizione, non avrei mai giudicato una cosa del genere: il discorso prima di aprire i regali era obbligatorio, a detta di Stark. E non mi avrebbe dato fastidio.
Ma il fatto che fossi io a dover fare il discorso proprio non lo capivo.
Quel maledetto di Stark mi rifiló un microfono in mano, costringendomi a dover per forza dire qualcosa. Sentivo gli occhi di tutte le persone presenti su di me, ma non li percepivo più come aghi affilati pronti a pungermi, bensì come incoraggiamenti non verbali che, piano piano, mi invogliarono a parlare.

Widowmaker: l'antenata dei Supersoldati // Bucky BarnesWhere stories live. Discover now