Capitolo 15: "Che ne dici di chiedere il permesso a me?"

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Non lo avrebbe mai detto a Wilson, neanche fosse stato sotto tortura. Bucky non era un tipo a cui piaceva condividere, e credo di averlo appurato per bene. 

Il suo petto era pressato contro la mia schiena nuda, mentre accarezzava con le sue delicate dita di vibranio il mio fianco destro, provocandomi inevitabili brividi dovuti dal freddo contatto del metallo. Di tutte le volte in cui aveva dormito insieme a me, mai avevo avuto il piacere di sentire effettivamente il tocco della mia pelle sulla sua, sempre coperta da vari pigiami per il freddo; le nostri pelli bollenti si sfioravano innocentemente, portando ancora i segni che la notte precedente ci aveva lasciato impresso addosso, mentre con tutta la purezza del mondo ci lasciavamo andare ad un abbraccio spensierato. Mi girai verso di lui, intercettando i suoi profondi e cristallini occhi scrutarmi da vicino, con lo sguardo di una persona nuova. Una persona innamorata. Entrambi eravamo completamente spogli di qualsiasi indumento, solo le coperte ci proteggevano dalla leggera brezza mattutina che entrava dalle finestre del grattacielo. Alla fine la squadra aveva optato di raggiungere il Compound il giorno dopo, calcolando la stanchezza e probabilmente la sbronza di quasi metà degli Avengers. Per una volta potevo concordare con un'idea di Stark, finalmente. 

<<É ora di alzarsi, Moye Schast'ye>> sussurrò flebilmente. Rimasi sorpresa dal soprannome, sorridendo timidamente. Lo guardai con occhi incantati, lasciando che mi stampasse un leggero bacio sul naso.

<<Non voglio alzarmi, Serzhant>> risposi, facendogli la linguaccia. Lui ruotó gli occhi, accarezzando il mio volto con una delicatezza e purezza indescrivibile; mi lasciai andare al contatto, lasciando che la mano umana scorresse sul mio corpo con leggerezza e facilità, accarezzandomi i fianchi. Raggiunse piano piano le mie targhette, depositate tra i miei seni, e le afferrò, esaminandole con attenzione. Stranamente non mi ritrassi, lasciandogli leggere le scritte incise su di esse: ero stanca di mentirgli e, anche se non avrebbe scoperto tutto in quel momento, mi sarei perlomeno tolta un piccolo peso dal cuore.
<<Chi sono?>> domandò, guardandomi negli occhi. Sorrisi senza gioia, trovando sempre più difficoltà ad aprirmi. Bucky capiva benissimo cosa stessi provando, perciò decise di non scucirmi le parole dalla bocca, bensì aspettò sino a che fui pronta per raccontare.
<< Joshua Arrowsilv era mio fratello maggiore, il primo genito della famiglia Arrowsilv. Venne reclutato dall'esercito tedesco per combattere e conquistare la Polonia per Hitler. Tutto il reggimento morì nel tentativo di forzare le entrate, lui compreso. Solo la fazione 45 riuscì ad ottenere territorio e invadere la Polonia>> dissi. Ricordavo chiaramente gli occhi vitrei e spenti di mio fratello mentre esalava il suo ultimo respiro, ricordavo che era morto come un cane, in mezzo al fango, la pioggia e la morte. In mezzo alla guerra. Perché la guerra non era come la descrivevano Hitler o Mussolini, "un atto glorioso e patriottico"; combattere al fronte significava incertezza, paura sia di uccidere che essere ucciso. Nessun soldato aveva la certezza di tornare a casa, ma tutti erano consapevoli che ogni attimo poteva essere l'ultimo. Ogni pasto poteva essere l'ultimo. Ogni parola poteva essere l'ultima. Ogni abbraccio poteva essere l'ultimo. Ogni sorriso poteva essere l'ultimo. Ogni respiro poteva essere l'ultimo. La paura viscerale era un sentimento che si provava soprattutto quando si tentava di dormire, perché non potevamo sapere se i soldati nemici avessero aperto il fuoco, o peggio bombardato le trincee. Noi non potevamo saperlo, e proprio per questo quando era possibile scrivevamo le lettere ai nostri cari per dirgli quanto li volevamo bene. Nel caso mio e di mio fratello, scrivevamo a nostra sorella minore e a qualche amico, nella speranza che la lettera che avevamo scritto non fosse l'ultima.
Indicai l'altra targhetta, il cui numero seriale iniziava per 1.
<<Quando mio fratello venne arruolato sapevo che se fosse partito in guerra non lo avrei mai più rivisto, perciò mi arruolai anche io sotto il nome di Abraham Arrowsilv, lo sconosciuto generale del novantesimo reggimento, lo stesso a cui lui era stato assegnato>> spiegai.
<<Quando mio fratello morì in trincea davanti ai miei occhi, mi fece promettere di disertare, e lo feci in grande stile>> smisi un piccolo risolino, sapendo che non c'era nulla da ridere in quella situazione. Ma che ci potevo fare, era più forte di me: dovevo sdrammatizzare la situazione, o mi sarei cacciata a piangere nuovamente come una piccola bambinella indifesa.
<<Da lì in poi aiutami gli ebrei a scappare dalle persecuzioni, offrendogli ospitalità. I pochi amici che avevo stavano facendo la stessa cosa, perciò molte volte portavo da loro i fuggitivi dato che abitavano al confine con la Svizzera. Riuscì a salvarne molti, ma non tutti... >>. Il pensiero di non essere riuscita a salvare Dorothy e gli altri bambini mi perseguitata ancora, e non potevo fare altro che attribuirmi la colpa di tutto ciò. Nonostante l'avessi in un certo senso adottata, per me era come se fosse mia figlia, e nessuno poteva dirmi il contrario. Nemmeno mia madre, quando la definì una "sporca ebrea" . Mi faceva rabbia solo a pensare a quella frase: come si era permessa di insultare così pesantemente Dorothy, mia figlia?!
Bucky mi guardò con apprensione, avvolgendomi in un abbraccio confortante. Gli stampai un bacio sulle labbra, facendogli intuire che non ero ancora pronta ad affrontare un argomento così pesante. Il ragazzo, che per fortuna aveva la parola pronta in quella situazione, se ne uscì con una domanda sia esilarante che dolce allo stesso tempo.

Widowmaker: l'antenata dei Supersoldati // Bucky BarnesWhere stories live. Discover now