ᑕᗩᑭITOᒪO 39 |ᑎOᑎ ᒪᗩᔕᑕIᗩᖇE ᒪᗩ ᗰIᗩ ᗰᗩᑎO|

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Sono in sella alla vecchia moto attaccata a papà e stiamo andando a Balti, la città più grande nelle vicinanze di Singerei. È una città che somiglia molto alla capitale anche se qui regna la lingua russa, mentre nell'altra andava di tendenza il rumeno. Papà sfreccia divertito come un bambino, schivando buche e sorpassando carri pieni zeppi di fieno umidiccio. Non ho mai avuto paura con lui accanto, semplicemente perché ci ero abituata.

*

Fin da piccola, papà custodiva la passione per ogni tipo di motore e una volta, tornando dal suo lavoro temporaneo in Siberia, aveva portato un motore di moto a casa con sé. Lui era un tipo che si vantava spesso, anche all'epoca, e nel viaggio di ritorno insieme ai suoi compagni di carrozza, nonché abitanti della stessa Ciulucani dov'era nato, si era lasciato andare dopo shottini e shottini di liquido amaro.

Aveva raccontato loro che lo aveva rubato, non resistendo alla tentazione di avere una moto tutta sua. Inutile dire che i tre individui si presentarono a casa nostra la stessa notte. A mezzanotte in punto, il cancello azzurro sbatté talmente forte che aveva svegliato me e mamma dal sonno profondo. Papà si era alzato dopo un paio di colpetti che la mamma gli diede sulla spalla. Si sentivano delle voci sul terrazzino e una torcia illuminava l'interno dell'unica stanza riscaldata della casa.

Papà, ancora assonnato, era uscito in mutande a controllare mentre io e mamma ci eravamo nascoste sotto la finestra, accovacciate a terra come vestiti smessi. Lei tremava, io no. Avevo paura certo, ma credevo con tutta me stessa che il mio papà era l'uomo più forte che conoscessi. Fino ad allora. I momenti che susseguirono erano crudeli ai miei occhi. La mamma non voleva guardare, ma io ero troppo curiosa.

«Devi darci il motore!» Disse uno dei tre. Avevano dei cappucci in testa, vedevo solo gli occhi in penombra e la bocca muoversi crudele. «Devi darcelo ora, hai capito?» Urlava l'altro più alto con la pancia sporgente. Il terzo era dietro papà e si muoveva lentamente. Un colpo secco fece inginocchiare papà, che sbatté le ginocchia sull'asfalto. Uno dei tre allora tirò fuori un coltello affilato; in quel momento un urlo mi sfuggì dalla bocca. La mamma si affrettò a tapparmi la bocca, ma non si alzò da terra, non voleva vedere. Uno di loro allora incrociò il mio sguardo nel buio e con la torcia mi accecò prima di entrare nella veranda.

Sbatté più e più volte i pugni sulla porta, ma la mamma aveva chiuso il lucchetto e non mi ero accorta. Il tipo urlava ancora, ma non era rivolto a noi. Era tornato indietro e stava dando dei colpi in testa a papà dicendogli di aprire la porta o di dargli il motore. Solo a quel punto mamma urlò in lacrime da dietro la finestra. «Dagli quel dannato motore Giorgio! Ti prego!» Papà né guardò né alzò lo sguardo, era immobile e io avevo paura per lui.

Avrei voluto farmi grande più di tutti loro messi insieme e schiacciarli come moscerini, ma ovviamente non potevo. Ero lì dietro quella finestra appannata e piangevo lacrime di coccodrillo, implorando fuori e dentro la mia mente che non gli facessero del male. La mamma mi teneva per le gambe, accasciata sotto di me. Io ero più forte di lei e volevo sapere cosa stessero facendo all'uomo della mia vita.

«Siete ridicoli ragazzi!» Rideva papà. Perché ride? Li conosce? Mi chiedevo. Il primo sferrò un colpo in faccia a papà con il manico del coltello e lui fece una smorfia incomprensibile, sputava sangue, ma continuava a ridere. «Emilia, chiama Valentina!» Urlò allora e all'improvviso succedette il caos. Mamma si alzò da terra in panico, raggiunse la cornetta del telefono e con mani tremanti fece ruotare tre numeri sull'apparecchio, ma io ero scioccata da ben altro. Papà si era alzato di colpo e ora stava facendo a pugni con quei tre.

Sferrava colpi talmente forti che uno cadde dai tre gradini, atterrando sul tronco dell'albero davanti casa. Quello con la torcia si affrettò a tenerlo da dietro mentre il più grosso di tutti iniziava a colpirlo in pancia regolarmente. Un paio di minuti dopo si sentì in lontananza la sirena della polizia e mamma era di nuovo accanto a me. Aveva chiamato la vicina, sua amica, e le aveva detto di chiamare la polizia e spedirla da noi. Non capivo perché non lo avesse fatto lei, avrebbe risparmiato qualche colpo a papà.

99 TᕼIᑎGᔕ I - ᖇITOᖇᑎO ᗩᒪᒪE OᖇIGIᑎIWhere stories live. Discover now