ᑕᗩᑭITOᒪO 25 |ᔕTᗩᑎᗪ-ᗷY|

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Eccomi qui, di nuovo a rifare questa minuscola valigia di stoffa consumata che mi porto dietro da anni ormai. Se potessi, incorporerei il suo interno dentro il mio sterno: d'altronde, cos'altro mi serve per sopravvivere? Sette paia di calzini, della biancheria e dei reggiseni sportivi che avrei potuto buttare per quanto poco mi servissero. Mia madre si ostinava a comprarli e mi incoraggiava spesso a metterli.

Ho sempre rifiutato il suo invito come si evita un boccone di cioccolato fondente. Ero una donna pure io dopotutto. Non mi scoraggia il fatto di non avere nessun accenno di seno, al contrario delle mie compagne di scuola, ma stavolta sono serena e guardo quegli indumenti da un'altra prospettiva. Forse è questo il suo modo di essere madre?

Mi convinco che è così e afferro il piccolo pettine di plastica e un nuovo spazzolino insieme al dentifricio che poggiavo sempre sul bordo della finestra. Era il mio angolino. Amavo stare davanti alla finestra e ogni tanto, con cautela, guardare quei piccoli cambiamenti che si riflettevano nello specchio fra le mie minute mani.

Racimolo i libri sparsi per la stessa stanza dove una vita fa, forse, faceva la stessa cosa mia madre, anche se per motivi diversi. Lei che, come tutte le altre sorelle, ha condiviso questa camera che ora devo abbandonare. Mi dispiace lasciare la nonna, ma so per certo che non le succederà nulla a cui non possa sopravvivere.

«Sei pronta?! Dai che faccio tardi al negozio.» Vera era impaziente e lo accentuava battendo le dita sul bordo della porta laccata. Aveva iniziato a fare qualche ora al pomeriggio nel negozio di ortaggi. Indossava ancora i vestiti di ieri e aveva una strana aurea attorno.

«Un attimo. Devo solo trovare il mio mangianastri e sono da te.» Le dico mentre cerco nello stesso armadio che stava lì da decenni. Mi metteva inquietudine, ma con uno sforzo cercai di non pensare al fatto che le generazioni prima di me avessero usato quell'armadio che forse non era mai stato svuotato.

Tra una camicia stropicciata e un paio di jeans sbiaditi trovo quello che stavo cercando e mi avvio di corsa alla porta. Vera è già sulle scale e sbuffa impaziente. «Tranquilla. Sono una scheggia a camminare. Non mi starai dietro.» Le confesso divertita. «Sarai anche una scheggia, ma io sono già in ritardo. Mi sono addormentata dal mio ragazzo e non ho fatto nemmeno in tempo a lavarmi.» Accenna pensierosa.

«Infatti hai un odore strano. Dovresti lavarti. Non puoi vendere fragole e cetrioli con addosso l'odore della cipolla.» Le dico nauseata. Sapevo bene cos'era quell'odore. Lo avevo sentito in parecchie circostanze nelle quali avrei preferito evitare.

«È l'odore dell'amore piccola Khatrine.» Vedere Vera felice era cosa rara. Non era una tipa che si scioglieva facilmente. Infatti, non ha mai portato a casa nessuno e molti iniziavano a dubitare dei suoi orientamenti sessuali. Qualche dubbio l'ho avuto pure io e ne avevo avuto pure diritto, ma vederla di buon umore mi dava serenità. Sembrava quasi che mi volessi impossessare di un po' della brezza che emanava.

«È qui che abita il tuo bello?» Chiedo divertita, passando accanto all'abitazione. Sapevo bene dove abitava, infatti nell'altra vita li avrei persino visti all'opera. Ricordo perfettamente quel pomeriggio d'estate in cui mia madre mi aveva scaricato sulle spalle di Vera con la scusa di "commissioni in centro". Ormai erano le sua parole magiche.

«Manca il pane, vado a comprarlo in centro.» «Certo mamma», perché il chiosco all'angolo non fa il pane con la stessa farina?! Nessuno aveva da ridire del resto, il pane mancava sempre, ma di solito non lo comprava mai nessuno.

Quel pomeriggio Vera mi aveva portata semplicemente con sé. Era felice anche l'altra volta, credo per lo stesso motivo di ora, ma non mi voleva allo stesso modo in entrambe le situazioni. Lo si capiva bene dal modo in cui cercava di camminare più veloce, ma invano perché sono veramente una scheggia.

Arrivate in cima alla strada, una delle due aveva il fiatone e quella non ero io. «Allora rammollita?!» Le urlai, ma ero già lontana. Avevo preso la discesa come una bici senza freni e mi godevo l'aria che mi schiacciava il viso. Le gambe si sorpassavano l'un l'altra come un atleta esperto. Le guance si allargavano come melma e sembrava che gli alberi mi accompagnassero.

«Aspettami, Khat. Fermati Khat!!!» Urlava Vera in lontananza. «Tempismo perfetto!» Le dissi senza fiato. In quell'istante un grosso camion carico di militari stava facendo zig zag tra le buche della strada principale. Avevamo corso per cinque isolati e ora osservavo Vera che mi guardava e rideva tra una boccata d'aria e l'altra.

Ricominciammo a camminare; educate, come siamo sempre state, per la via principale in direzione Balti. Alla prima strada svoltammo a sinistra oltrepassando il solito panettiere all'angolo. I tre edifici in mattoni grigi si presentavano sbucando quasi da dietro la fila di alberi maestosi. «Ti ricordi ancora dov'è l'appartamento?» Chiese Vera mentre si sistemava la treccia camminando affiancata a me.

«Vediamo se indovino!» La sfidai dandole uno spintone. «Stupida. Mi fai cadere.» Le sue risate erano talmente rare persino da piccola che immortalavo ogni volta questo momento con la mia mente fotografica. Mi bastava puntare lo sguardo su un particolare che a chiunque altro sarebbe passato inosservato e Click, il gioco era fatto. Ricorderei persino dopo decenni cosa avevo mangiato quel giorno.

«Dove andiamo ora?» Chiese Vera. Non era più la Vera bambina che un attimo prima mi era sembrato di aver accanto. Era la Vera sessualmente attiva, che emanava odori inconfutabili di euforia da tutti i pori.

«Che cosa?» Le chiesi confusa. Cercavo di non farmi beccare mentre sbirciavo intorno a noi: eravamo arrivate esattamente dov'ero con il mio ricordo.

«Abbiamo corso?» Le chiedo confusa. «Khatrine, stai bene?» Vera mi tocca la fronte spingendomela quel poco che basta all'indietro per farmi perdere l'equilibrio, ma non cado. «Sei calda, forse hai la febbre. Andiamo.» Mi tira per il braccio verso l'interno dell'edificio nel mezzo e a fatica saliamo i gradini. «Ancora un po' . Appoggiati a me.» Mi incoraggia mentre le mie gambe si trasformano in gomma. «Dobbiamo salire al quarto piano.» Vera mi incita tirandomi quasi di peso su per le anguste scale. La mia mano tocca la vernice bianca sul muro e una scossa mi attraversa la spina dorsale.

La mente si annebbia, ma non diventa tutto buio. Le immagini si svelano ad una lentezza lacerante nel mio cervello o dovunque siano. Sto correndo. È buio e corro su queste stesse scale. Inciampo e cado, ma mi rialzo subito. Guardo nel buio dietro di me, ma non vedo nessuno. Guardo le mie mani e realizzo che ho l'età di ora. Sono forse un po' più grande, ma di qualche mese. Tengo una mano attaccata alla balaustra e l'altra si trascina sul muro bianco.

Corro su queste scale, ma sembra impossibile raggiungere il quarto piano. Finalmente una luce nel buio si fa spazio e la mia vista inizia a tornare nitida.

«Eccovi, finalmente!»Vera mi scaraventa quasi addosso a Caroline e Mila che attendevano impazienti il nostro arrivo. «Non so cosa le è preso. Stendetela sul divano.» Ordina Vera evitandole. «Ma ha bevuto?» Chiede Caroline ridendo. «No, cretina. Ha solo dieci anni.» Vera squadra Carolina che si affretta a raggiungere me e Mila ormai sul divano.

Distesa, iniziavo finalmente a riprendere coscienza e a realizzare che ero nel presente. Ma sono davvero nel presente di adesso o in quello dell'altra volta? E cos'era quella visione? Non ricordo di aver corso al buio su per queste scale, impaurita poi. Mai qui.

Siamo solo cinque ragazze che avrebbero abitato nello stesso appartamento per quasi un anno!

Cosa mai sarebbe potuto andare storto?!

99 TᕼIᑎGᔕ I - ᖇITOᖇᑎO ᗩᒪᒪE OᖇIGIᑎIWhere stories live. Discover now