✓ Seoul, Why Do You Sound Lik...

By amemipiaceilcocco

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{COMPLETA} «Pensaci, saremmo proprio una bella coppia. Tu la brava ragazza della porta accanto e io il bastar... More

intro
prologo
uno
due
tre
quattro
cinque
sei
sette
otto
nove
dieci
undici
dodici
tredici
quattordici
quindici
sedici
diciassette
diciotto
diciannove
venti
ventuno
ventidue
ventitré
ventiquattro
venticinque
ventisei
ventisette
ventotto
ventinove
trenta
trentuno
trentadue
trentatré
trentaquattro
trentacinque
trentasei
trentasette
trentotto
trentanove
quaranta
quarantuno
quarantadue
quarantatré
quarantaquattro
quarantacinque
quarantasei
quarantasette
quarantotto
quarantanove
cinquantuno
cinquantadue
cinquantatré
cinquantaquattro
cinquantacinque
cinquantasei
cinquantasette
cinquantotto
cinquantanove
epilogo
the end

cinquanta

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By amemipiaceilcocco

avevo detto che sarebbe stato breve ma alla fine mi son lasciata prendere dal momento! :3 buona lettura

**

«Ah, e... Chaeyoung!» mi chiamò il signor Hong dopo l'ennesimo incontro avvenuto esclusivamente tra me e lui. «Ci tenevo a ricordarti per quale motivo tu faccia parte di questa agenzia. Quella foto esiste ancora. È tra le mie mani. Proprio come la tua vita. Un passo falso e siete fuori entrambi. Tu e il tuo idol da quattro soldi.» poi, facendomi un occhiolino malizioso, aggiunse: «Smettetela di incontrarvi di nascosto come due liceali in preda agli ormoni.»

**

Tutto si stava lentamente sgretolando. Era come essere spettatrice della mia stessa vita mentre veniva investita da un potentissimo tsunami che, al rallentatore, frantumava le piccole ma significative cose belle che ne avevano fatto parte fino a quel momento. E io ero totalmente impotente di fronte a tale distruzione.

Non sapevo come comportarmi.

Non avevo mai dimenticato il vero motivo per cui ero diventata io stessa un idol, nonostante non avessi mai desiderato intraprendere quel tipo di percorso. Ricordavo perfettamente il mio ultimo incontro con Bang Sihyuk – il mio vecchio datore di lavoro – avvenuto insieme alla presenza del signor Hong, che presto sarebbe diventato il mio nuovo capo. Ricordavo perfettamente l'espressione rammaricata di Bang Pd, mentre mi consegnava quella dannata busta bianca, contenente le foto scattate a me e Jungkook, durante un tenero e sincero abbraccio. Il suo volto era inconfondibile in quegli scatti rubati. Il mio, al contrario, era ben nascosto nel suo petto. L'unico che poteva rimetterci era lui. E il signor Hong lo sapeva. Era proprio per quel motivo che era riuscito a strapparmi dalle braccia di Bang Pd per trascinarmi tra le sue grinfie. Delle tante promesse fattemi, non ne era stata mantenuta nemmeno una. Il contratto che avevo firmato diceva che avrei avuto pieno potere sulle canzoni dei miei futuri album; il 70% dei guadagni sarebbero stati miei; l'ultima parola per qualsiasi decisione concernente la mia carriera sarebbe spettata a me. Niente di tutto ciò era avvenuto.

A malapena avevo la possibilità di scrivere qualche strofa delle nostre canzoni.

Non avevo il diritto di esprimere la mia opinione su niente che riguardasse la mia carriera. Tutto era già stato deciso e programmato in antecedenza. Io e le ragazze eravamo dei semplici burattini.

Delle vendite del nostro primo EP, non mi era pervenuto nemmeno uno won. Sopravvivevo con i pochi rimasugli dell'ultimo stipendio ricevuto dalla BigHit.

Ma, non solo la mia carriera era sotto il controllo di quell'uomo perfido, anche la mia vita. Con poche e lente parole, aveva fatto piazza pulita intorno a me. Non avevo il permesso di incontrare nessuno. A malapena potevo vedere i miei familiari e durante quei brevi incontri il mio manager doveva essere presente per controllare che non rivelassi certe informazioni.

La goccia che aveva fatto traboccare il vaso, era stata la decisione di architettare una sorta di relazione segreta tra me e Felix. Quello era stato troppo da reggere persino per me. Soprattutto, vista la reazione del pubblico. Ero stata letteralmente lanciata nell'occhio del ciclone, abbandonata a me stessa e l'unica persona che aveva promesso di stare al mio fianco anche nei momenti più brutti, si era allontanata da me.

Jungkook, dopo quel semplice messaggio, aveva fatto in modo che io non potessi più contattarlo. Ci avevo provato, in tutti i modi, rischiando di essere scoperta dal signor Hong. Avevo bisogno di spiegargli. Volevo che sapesse che era tutta una messa in scena, progettata dal mio nuovo capo per aumentare i propri guadagni. Io ero solo una pedina, una vittima di quel gioco brutale. Lui doveva sapere.

Per questo motivo, avevo scelto di rischiare tutto.

Camminavo velocemente tra le strade di Seoul col capo chinato verso i miei stivaletti in pelle, coperta dalla testa ai piedi per rendermi irriconoscibile. I capelli erano ben nascosti sotto il cappuccio della felpa e da un enorme sciarpone nero che circondava il mio collo. Sul viso portavo la mia classica mascherina nera che copriva sia il naso che la bocca e degli occhiali scuri ed enormi celavano i miei occhi. Indossavo vestiti poco appariscenti, proprio perché non volevo dare nell'occhio.

Sospirai quando intravidi la mia meta. Una bellissima e a tratti incerta sensazione di calore si propagò nel mio bassoventre, raggiungendo velocemente il mio cuore.

Un sorriso flebile si fece spazio sul mio volto, al di sotto della mascherina. Erano anni che non mi sentivo così calma e felice a camminare tra gli altri palazzi di Seoul. Erano anni che non percorrevo quella strada. Erano anni che non vedevo quell'insegna, che in passato era stata per me così familiare.

BigHit Entertainment.

Mi fermai a qualche metro dall'entrata e chiusi gli occhi, ispirando quanta più aria i miei polmoni potessero contenere. Sollevai il viso verso il cielo e, anche attraverso le palpebre chiuse, riuscii a vedere gli ultimi barlumi del sole che, lentamente, stava tramontando. Ancora una volta, sorrisi.

Era questa la sensazione che si provava quando si tornava a casa?

**

Jungkook's pov.

Il mio respiro affannato, unito a quello degli altri ragazzi, era tutto ciò che si poteva udire all'interno della sala prove. Persino il nostro coreografo – solitamente sempre pronto a commentare i nostri movimenti – rimase in silenzio ad osservare accuratamente le sue scarpe da ginnastica bianche.

Era chiaro a tutti che ci fosse qualcosa che non andava.

Ed era ancora più chiaro che il problema fossi io.

Non riuscivo a concentrarmi come dovevo. E sapevo anche da cosa fosse scaturito tutto ciò. O, meglio, da chi.

I ragazzi erano visibilmente preoccupati. Non ero mai stato il tipo di persona che si lascia condizionare così facilmente dalla propria vita privata. Eppure, in quel periodo, era inevitabile. Nella mia mente erano ancora vivide le immagini e i ricordi di quell'ultimo ma bellissimo momento passato insieme, nel buio di quello stanzino. Era stato così bello poterla stringere tra le mie braccia come avevo sempre voluto fare, ed era stato meraviglioso rendermi conto che lei me lo stesse permettendo, nonostante le mille insicurezze.

Poi, però, quel castello di carta che mi ero costruito nella mia mente, era crollato improvvisamente. Era bastata una semplicissima follata di vento a distruggere ciò che per me era diventato molto caro. Eravamo così fragili e instabili che non eravamo riusciti a restare in piedi. Tutto era finito in un batter d'occhio. E, nonostante fossi arrabbiato, non riuscivo a darle la colpa di tutto.

«Kookie!» mi chiamò Jimin, notandomi fin troppo assorto nei miei pensieri. «Pensavamo di prenderci una pausa!»

Sospirai, abbattuto. Era colpa mia.

«Si.» mormorai, deglutendo con fatica. «Potrei sfruttarla per fare un giro e chiarirmi la mente.»

Senza aggiungere altro, mi alzai dal pavimento e uscii a passi lenti e trascinati dalla sala prove, sotto lo sguardo allarmato dei miei sei fratelli maggiori. Odiavo essere un peso per loro. Ma, in quel momento, non riuscivo proprio ad evitarlo.

Camminai a testa bassa lungo i corridoi dell'agenzia per cui lavoravo da quando ero appena adolescente. Quei muri, quelle porte e quei visi racchiudevano in loro milioni di ricordi ma, in quel momento, il suo viso era l'unico tutto ciò che la mia mente era in grado di mostrarmi.

Il suo bel sorriso, i suoi occhietti, i suoi rimproveri ogniqualvolta stonassi una nota o non mi impegnassi abbastanza nel registrare una canzone. Il suo modo di scrutarmi in cagnesco quando cercavo di metterla in imbarazzo, esclamando frasi poco caste.

Ricordavo il nostro primo incontro quando, dopo essermi presentato e non conoscendo la mia vera età, mi aveva chiamato "oppa" e io ero immediatamente diventato paonazzo. All'epoca, avevo odiato con tutto me stesso l'onorifico.

Ricordavo ancora con quale foga e trasporto emotivo mi aveva lanciato la chiavetta USB addosso, quando era venuta per la prima volta al dormitorio per farmi sentire la base a cui aveva lavorato per il mio primo pezzo da solista. Insieme, avevamo scritto ogni singola parola di quella canzone. Begin. In un certo senso, era stato l'inizio di tutto.

Ricordavo l'enorme ostilità che aveva provato nei miei confronti quando, durante la nostra breve permanenza ad Hong Kong, era stata male di stomaco e io le ero corso dietro per aiutarla. Alla fine, l'avevo accompagnata all'hotel – nonostante le sue numerose polemiche – e lei durante il breve tragitto si era aggrappata alla manica della mia giacca per avere maggiore stabilità. Non lo avevo dato a vedere, ma quel semplice gesto mi aveva mandato in tilt il cervello. Mi era piaciuto sapere che in quel momento avesse bisogno di me.

Ricordavo il nostro primo bacio. Era stato molto casto. Le nostre labbra si erano appena sfiorate. Lei mi aveva appena chiesto di mantenere le distanze, di non avvicinarmi più a lei. Avevo tremato dalla paura quando aveva detto quelle parole: "D'ora in poi, non voglio avere a che fare con te se non è per motivi lavorativi." E io, quando aveva provato ad andarsene, l'avevo tirata nuovamente verso di me. Mi ero scusato in un sussurrò prima di avvicinare il mio viso al suo. Avevo fatto appena in tempo a sfiorarla, che lei mi aveva spintonato all'indietro. Prima di andarsene e lasciarmi solo, aggiunse: "Non costringermi a richiedere un'ordinanza restrittiva!" e per qualche strano motivo, compresi quanto fosse seria nel pronunciare quelle parole.

Mi ricordavo ancora quella volta in cui, insieme ai ragazzi, si era ubriacata nel nostro vecchio dormitorio. Dopo essere sgattaiolata nella mia stanza, avevamo parlato un po' e io, come al solito, l'avevo chiamata col suo soprannome preferito: principessa. La sua risposta, quella volta, fu epica. Con fare altezzoso, aveva portato una mano sul fianco e aveva annunciato solennemente: "Non sono una principessa, sono una fottuta regina." Non ero riuscito a trattenermi dalle risate, soprattutto quando aveva concluso la sua sceneggiata con un piccolo occhiolino.

Ricordavo anche il primo rumor che la coinvolse. Si trattava di una foto scattata all'uscita da una premiazione, dove lei camminava tra me e Jimin. Io le avevo prestato un'enorme sciarpa arancione per coprirla il più possibile. Per giorni si era parlato di una possibile relazione tra "la ragazza dalla sciarpa arancione" e Jimin o me. Alla fine, avevamo messo a tacere il tutto dichiarando che fosse una parente di Jimin, senza far trapelare il suo nome. Quella sciarpa, alla fine, non me l'aveva mai data indietro. Probabilmente, col passare degli anni, l'aveva buttata.

Ricordavo quella settimana in cui ebbe la febbre. Era un vero catorcio, ma ero stato ben più che felicemente disposto a prepararle qualcosa da mangiare e accudirla, soprattutto mentre lei sonnecchiava tranquillamente.

Ricordavo la prima volta che piansi in sua presenza, mentre l'accompagnavo a casa. Entrambi eravamo preoccupati per Jimin-hyung e delle sue difficoltà con l'alimentazione. Quella sera, l'avevo stretta tra le mie braccia, lasciandomi cullare dalla sua presenza, ricercando in lei un po' di conforto. Era stata la volta in cui qualcuno ci aveva scattato segretamente una foto. Ancora non sapevo che fine avesse fatto, nessun tabloid ne aveva parlato. Era stata anche la prima e unica volta in cui avevo dormito a casa sua, sotto sua richiesta. Non voleva stare sola perché aveva paura. E io non ci avevo pensato nemmeno un istante ad acconsentire. Quella notte, dopo che aveva avuto quel terribile incubo, aveva avvinghiato le sue braccia intorno al mio corpo, costringendomi a dormire nel suo stesso letto. Era stata la notte in cui mi ero reso conto della bellezza di Seoul, guardando fuori dalla finestra della sua camera. Quella città era diventata così bella ai miei occhi solo ed esclusivamente grazie alla presenza di Chaeyoung. Il mattino dopo, in seguito ad una piccola discussione, le avevo rivelato – seppure in modo sottile – i miei veri sentimenti nei suoi confronti. Lei, però, non aveva voluto credermi. E io non avevo fatto nulla per farle cambiare idea. Me n'ero solamente andato.

Ricordavo la volta in cui l'avevo portata fuori a cena, perché preoccupato per la sua salute. Aveva passato diversi giorni chiusa nel suo studio, senza mangiare nulla. Durante la cena, il cameriere che ci aveva servito non le aveva tolto gli occhi di dosso nemmeno un secondo. Ero geloso marcio e lei lo aveva scoperto. Senza nemmeno toccare il cibo, l'avevo trascinata a casa sua preso dalla foga di voler sentirmi ancora più vicino a lei. Ancora una volta, le avevo mostrato i miei sentimenti più sinceri e, di nuovo, lei non mi aveva creduto, ordinandomi di uscire da casa sua. "Sparisci!" aveva gridato a pieni polmoni e io l'avevo assecondata. Aveva sbattuto con forza la porta dietro alle mie spalle ma io non me n'ero andato. Ero rimasto lì, ad ascoltarla singhiozzare violentemente dall'altra parte di quel pezzo di legno, incolpandomi di tutto quanto. Piangeva a causa mia.

Il giorno dopo, era sparita. Per due anni non ebbi sue notizie, come tutti gli altri del resto.

Il suo viso e il suo nome diventarono, pian piano, solo un lontano ricordo rinchiuso in qualche angolo della mia memoria e, soprattutto, del mio cuore.

Non la rividi fino al giorno del loro debutto. Era sempre rimasta a Seoul. Non se n'era mai andata. Eppure, la sua assenza, aveva reso ai miei occhi quella città orribile e soffocante.

«Scusi.» mormorò una figura incappucciata dalla testa ai piedi, dopo avermi tirato per sbaglio una spallata. Il suo viso si alzò lievemente verso il mio e io la fissai confuso. Era coperta dalla testa ai piedi e mi fu impossibile riconoscerla. Eppure, notai che il suo corpo ebbe un momento di esitazione. Non riprese a camminare immediatamente. Restò qualche secondo che parve durare ore intere a scrutarmi, attraverso quegli spessi occhiali scuri.

«Guarda dove vai.» mormorai, con un po' di agitazione. Poteva essere una fan che era riuscita a sgattaiolare all'interno dell'edificio.

Poi, però, senza aggiungere altro, riprese a camminare con decisione lungo il corridoio bianco, lasciando dietro di sé un profumo vagamente familiare.

Continuai ad osservare la schiena di quella ragazzina e sussultai nel constatare una certa familiarità con le sue movenze. Feci un passo nella sua direzione.

Poi, la figura svoltò l'angolo e io rimasi immobile nel punto in cui ero, col cuore che palpitava a mille.

«Chaeng?» sussurrai a fior di labbra, con un misto di speranza e confusione a decorare la mia voce.

Era davvero lei?

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