07|| unexpected turn.

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Il sole era nascosto dietro a grosse e grigie nuvole, quella mattina, e un vento forte smuoveva le cime degli alberi, piegandole a suo piacimento, e innalzava la terra, che rendeva difficile tenere gli occhi aperti per troppo tempo; non avevo mai visto un tempo tanto angusto da quando ero arrivata in Wakanda.
Fuori, sulla pista d'atterraggio in fermento, il vento rendeva difficile anche solo restare fermi, eppure una ventina di inservienti, tra uomini e donne, si apprestavano a scaricare enormi casse dai Cargo Americani, apparentemente parecchio pesanti.
«Cosa sono?» chiesi, chinandomi verso Shuri, che stava al mio fianco, indicando le suddette casse; lei seguì con lo sguardo il mio dito e si avvicinò di più a me, per non dover urlare visto il rumore del vento.
«Vibranio. Ross né aveva ordinato il prelievo, ma adesso gli viene ovviamente revocato.» spiegò, prendendomi sotto braccio. T'Challa aveva accennato qualcosa sull'intenzione nascosta di Ross, ovvero quella di mettere le mani sul Vibranio, ma a quanto sembrava i suoi piani non erano andati esattamente come sperava, o almeno non del tutto; era riuscito a portare via qualcosa, ma non tutto. Mi limitai ad annuire, persa nei miei pensieri, poi spostai lo sguardo sulle porte del palazzo: le Dora Milaje avrebbero varcato la soglia da un momento all'altro, scortando i militari di ritorno a casa, di certo non per loro volere.
«Dobbiamo sbrigarci, T'Challa.» esortò Shuri, ancora sotto il mio braccio, con il capo reclinato per guardare il cielo «Potrebbe esplodere una tempesta da un momento all'altro.» continuò poi, scuotendo appena il capo. Ramonda, di fianco a T'Challa, si girò e la fulminò con lo sguardo, intimandole di restare in silenzio, poi spostò l'attenzione su di me e mi fissò con vero e proprio disgusto; la sfumatura che le lessi negli occhi non poteva essere interpretata come nient'altro. Ignorai il suo sguardo e spostai il mio sulle scapole di T'Challa, che mi stava davanti, poi provai a tener ferme le ciocche di capelli che erano sfuggite alla coda e mi sferzavano il viso, sospinte dal vento vorace e inarrestabile. Sapevo bene che mi riteneva responsabile di tutto quello che stava succedendo, e probabilmente aveva anche ragione, non potevo darle torto, solo non avevo voglia di affrontare la situazione, non in quel momento, non quando avevo ben altro a cui pensare, di cui occuparmi.
Fortunatamente, le porte del palazzo si aprirono e i militari, scortati dalle Dora Milaje, attirarono la sua attenzione, salvandomi dal suo sguardo e dal suo giudizio; mi voltai anch'io per fissare quegli uomini ancora indolenziti e doloranti per le percosse subite, e li seguii con lo sguardo finché non si fermarono di fianco ai Cargo Americani con cui erano arrivati. Nessuno di loro osò ribellarsi, ma nei loro volti, nei loro sguardi, era impossibile non leggere la rabbia, la frustrazione per l'umiliazione subita, per la sottomissione a cui erano sottoposti; uno di loro, quello che aveva tenuto Okoye in ostaggio, mi notò per primo e puntò i suoi occhi voraci su di me, ma fu velocemente rimesso in riga da Okoye stessa, che gli si avvicinò per dirgli qualcosa. T'Challa avanzò, da solo, vestito dei suoi abiti tradizionali, e si fermò a una distanza tale da essere sicuro di essere sentito sia da loro che da noi, che non l'avevamo seguito; la pista d'atterraggio non mi era mai sembrata così tanto affollata come in quel momento, neanche durante il loro arrivo.
«Verrete rispediti in America come gli approfittatori che siete, anche se le condizioni sono fin troppo buone rispetto a quello che meritereste.» disse, poi incrociò i polsi dietro la schiena e sospirò «Fatto sta che noi non siamo come voi, e perciò l'unica ferita che vi resterà sarà quella che vi abbiamo inferto nell'orgoglio. Questo è tutto. Procedete!» ordinò poi, spostando lo sguardo su Okoye. La Dora afferrò uno degli uomini per il gomito, poi con una leggera spinta lo indirizzò verso il portellone aperto di uno dei tre Cargo e il resto si divise equamente, sospinto dalle Dora.
Quando tutti furono a bordo, Shuri si fece avanti e affiancò il fratello, spiccando al suo fianco principalmente per la differenza di vestiario: la principessa indossava dei semplici pantaloni morbidi e una T-shirt, poi aveva raccolto i capelli in due grosse crocchie, che le toglievano di dosso almeno due anni.
I due parlarono per qualche secondo, chini l'uno verso l'altro, mentre i militari prendevano posto e venivano abilmente legati ai sedili, poi Shuri sollevò il braccio su cui portava l'orologio e prese ad armeggiare con quello: i portelloni si richiusero, lentamente, e i motori si avviarono; ovviamente, i Cargo non avevano pilota ma viaggiavano con uno atumatico: nessuno dei militari sarebbe tornato in America di sua spontanea volontà. Le Dora Milaje si allontanarono per permettere ai Cargo di decollare e io alzai una mano a schermarmi gli occhi dal vento, che sembrava essere raddoppiato grazie alle eliche dei motori; ferma in quella posizione, con gli occhi semi-chiusi, non mi accorsi che Ramonda aveva dato le spalle alla scena e mi si era avvicinata.
«Dovresti guardare,» mormorò «questo, dopotutto, è anche per te. È per te che mio figlio si è schierato contro il Governo Americano, quando aveva fatto tanto per restare in buoni rapporti con loro, dopo tutto quello che è successo.» continuò poi, mantenendo lo stesso tono di voce. Mi girai a guardarla, con un sopracciglio inarcato, e nei miei occhi lei lesse qualcosa che la fece sorridere; non era di certo però un sorriso gentile, bensì aveva qualcosa di furbo, quasi davanti le si fosse appena presentata un'opportunità incredibile che non poteva non cogliere a volo.
«Non lo sai?» domandò «Dovresti indagare, allora.» mi esortò poi, con lo sguardo di chi aveva vinto una battaglia importante; dopodiché, come se nulla fosse successo, si allontanò di nuovo e tornò a guardare i Cargo, che si erano librati in volo e si avviavano verso la barriera invisibile. La fissai, intontita dalle sue parole, mentre un ricordo si faceva lentamente spazio nella mia mente: le parole che mi aveva rivolto Ross, prima che il suo ologramma sparisse.
"È proprio uguale ai suoi amici, e a suo fratello, signorina Petrovskij." aveva detto, ma a cosa si riferiva per l'esattezza? Certo, per quanto riguardava Vektor, aveva sottinteso che ero una criminale proprio come lui, ma a chi si riferiva quando aveva parlato di "amici"? C'erano solo poche persone che erano state etichettate in quel modo, nella mia vita e, nel caso in cui Ross stesse davvero parlando di loro, le sue parole non avrebbero avuto alcun senso; gli Avengers erano considerati eroi, non potevano essere messi a paragone di Vektor. A meno che... io non fossi all'oscuro di qualcosa.
Lanciai uno sguardo a Ramonda, che continuava a guardare il cielo con espressione soddisfatta, poi spostai lo sguardo a Shuri e T'Challa, spalla contro spalla, intenti a parlare di qualcosa; le parole della Regina si ripetevano all'infinito nella mia testa, fomentando dubbi che non sapevo di avere.
«Va tutto bene?» domandò T'Challa, riportandomi alla realtà; non mi ero neanche accorta di averlo vicino, perciò sobbalzai e lui notò immediatamente la cosa. Mi fissò con un sopracciglio inarcato finché non riuscii a mettere su un leggero sorriso.
«Si,» mentii, sospirando subito dopo «ero solo persa nei miei pensieri.» continuai poi, spostando lo sguardo su Ramonda, che si allontanava verso il palazzo accompagnata da Shuri; lui seguì la direzione dei miei occhi, poi mi si parò davanti, così che tornassi a guardarlo. Era più alto di me, perciò dovetti appena reclinare la testa per guardarlo in faccia, e nei suoi occhi lessi una certa preoccupazione.
«Mia madre ti ha detto qualcosa di sconveniente?» chiese, consapevole però che non avrei aperto bocca sull'argomento; in risposta, infatti, mi limitai ad assottigliare lo sguardo, poi m'incamminai verso il palazzo e lui mi seguì, un po' infastidito dal mio silenzio; attraversammo insieme i corridoi, senza proferir parola, fino a raggiungere un bivio.
«Vado ad allenarmi.» dissi, dirigendomi verso sinistra. Lui si fermò per guardarmi.
«Vuoi riprendere ad allenarti?» chiese, con la voce di chi in realtà vorrebbe dire tutt'altro; sapevo bene che non era felice del fatto che avessi ripreso a combattere, non lo ero neanche io, ma non potevo farmi trovare impreparata.
«Vektor non si arrenderà di certo solo perché glielo chiederemo!» dissi, più sgarbata di quanto mi aspettassi «E poi dobbiamo essere pronti a tutti.» continuai poi, addolcendo il tono. Lui si limitò ad annuire, io gli lanciai un'ultima occhiata e poi mi allontanai, diretta alla palestra che si trovava in quell'ala del palazzo. Era vuota, quando varcai la soglia, e il silenzio che regnava all'interno venne prontamente spezzato dallo sbattere della porta alle mie spalle; mentre il rumore rimbalzava sulle pareti, assordante, raggiunsi gli armadietti e presi a fasciarmi le mani.
Le parole di Ramonda e quelle di Ross continuavano a ripetersi nella mia mente, in un loop che non aveva fine, mettendo in risalto sempre di più che, in tutta quella storia, c'era qualcosa che non andava. Raggiunsi il sacco da boxe, afflitta da una sensazione che non mi dava pace: mi sentivo come se, dopo essermi impegnata tanto per finire un puzzle, mi fossi accorta di un pezzo mancante, un vero e proprio buco, che fino a quel momento non avevo notato; eppure era stato lì per tutto il tempo, sotto i miei occhi, ma non ero riuscita a vederlo fino a quel momento.
Il sacco da boxe prese a ondeggiare, sospinto dai miei pugni, e il suo cigolio misto al mio respiro affannoso si diffusero per la palestra, spezzando il silenzio che mi circondava; quel misto di rumori m'infastidiva, quasi fosse la cosa più orribile che avessi mai sentito, così proprio come i dubbi che mi affliggevano.
In realtà, era solo la frustrazione e la rabbia che cercavano disperatamente un canale di sfogo; decisi d'incanalare tutto quello che stavo provando nei pugni che tiravo senza sosta, unica valvola di sfogo possibile in quel momento. Presto, sottili rivoli di sudore presero a scivolarmi sulle tempie, tra le scapole e tra l'incavatura dei seni, le mani presero a farmi male per il modo sgraziato con cui colpivo il sacco, dettato soltanto dalle emozioni, e il fiato mi venne meno; nonostante ciò, continuai a colpire, sempre più forte, sempre più veloce, finché non fui costretta a fermarmi per il dolore. Abbracciai il sacco di slancio per fermarne il dondolio e un grido vorace, animalesco, esasperato, simbolo di tutto ciò che avevo provato fino a quel momento, del mio mondo accuratamente ricostruito che minacciava di essere distrutto, della tristezza che provavo e della frustrazione che mi ottenebrava i sensi, mi esplose dal petto e si diffuse per la stanza, rimbombando sulle pareti; il suo eco mi tornò addosso, mi riconobbi a stento in quella voce roca. Non potevo continuare così, non potevo lasciare il mio destino, la mia missione, nelle mani di altri. Dovevo agire, dovevo sapere, dovevo trovare una risposta a quei dubbi che mi assillavano.
Spinsi via il sacco, srotolai le garze che mi fasciavano ancora i pugni e lasciai la palestra, per tornare in camera. Se nessuno voleva dirmi tutta la verità, allora l'avrei scoperta da sola.

Survivor. |Bucky Barnes Fanfiction.Where stories live. Discover now