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Riemergere dal buio fu difficile, e pastoso. Non c'era altro modo per descrivere la sensazione di pesantezza che mi annebbiava i sensi e appesantiva gli arti, anche la bocca era secca e la gola graffiava ad ogni respiro. Qualunque cosa mi avessero somministrato, era forte, e probabilmente illegale, perché nessun'altra medicina di mia conoscenza aveva effetti del genere. Il sollievo m'inondò di colpo, però, quando aprii appena gli occhi e mi resi conto che riuscivo a vedere di nuovo normalmente. La luce mi accecò appena, ma non abbastanza da costringermi a richiudere gli occhi; mi tirai su, facendo leva con le mani, e mi resi conto che queste erano libere. Le mossi, aprendo e chiudendo i pugni, felice di non sentire più la morsa ferrea sulla pelle, né la pressione delle spalle costrette in una posizione scomoda, poi mi resi conto dove mi trovavo. Mi bastò lanciare un'occhiata alle pareti bianche per riconoscere le celle dell'Alveare. La brandina in ferro su cui ero seduta, ricoperta da un sottile materasso nero, era l'unica cosa presente lì dentro. I miei occhi saettarono verso il vetro che dava sul corridoio, quello antiproiettile, catturati da un movimento lento, un accavallare di gambe a me familiare. Mia madre sedeva composta, una mano sul ginocchio e l'altra abbandonata in grembo, il volto serio, la schiena rigida, i capelli raccolti in uno chignon basso. «Ben svegliata.» la sua voce arrivò a me ovattata dal vetro, ma comunque chiara. «Ti chiederei se hai dormito bene, ma so che non è così.» dal suo viso, e dal suo tono, era svanita ogni traccia di rammarico avvistato su quell'aereo. «Non sei neanche capace di fare una battuta, mamma.» lei serrò la mascella, se offesa o soltanto arrabbiata non seppi dirlo, e si sistemò meglio sulla sedia. Di rimando, spostai le gambe oltre al bordo della brandina. E qualcosa urtò le mie clavicole facendomi sollevare un sopracciglio. Abbassai la testa e i miei occhi si posarono sul collare che ancora mi stringeva il collo: mi ero così abituata al suo peso, durante il volo, che non mi ero neanche resa conto fosse ancora lì. Inarcai un sopracciglio. «Ti stai chiedendo a cosa serve?» riportai lo sguardo a mia madre. «Lo scoprirai da sola, credo.» continuò, senza aspettare la mia risposta. «Cosa vuoi?» lei sollevò un angolo delle labbra in un mezzo sorriso che mi ricordò molto Vektor. «Credo che tu voglia farmi delle domande, sono qui per rispondere.» mi sfuggì una risata derisoria. «E perché dovrei credere alle tue parole?» lei fece spallucce, e non aggiunse nient'altro. Il silenzio si propagò tra noi, mentre nella testa mi si affollavano una miriade di domande a cui non riuscivo a dar voce. Potevo credere a quello che mi avrebbe detto? O sarebbe stata l'ennesima bugia? L'ennesimo raggiro? Non mi restava che provare. «Perché?» riuscii a sibilare, quasi la domanda mi provocasse dolore fisico. In realtà, averla lì a pochi metri da me mi creava un po' di disagio: quella donna era mia madre, eppure non avevo alcun sentimento nei suoi confronti, nessun legame se non quello di sangue, nessun rancore, nessun interesse nello scoprire la donna che era diventava. Volevo soltanto scoprire i suoi piani, e come mai fosse ancora così giovane, dopo tutti quegli anni. Lei inarcò un sopracciglio, e nel modo in cui il suo viso cambiò per quel movimento, rividi qualcosa di me stessa. Una sfaccettatura che mi lasciò l'amaro in bocca. «Perché, cosa?» mi sfuggì un verso strozzato di stizza. «Perché vi servo? Perché smuovere un intero paese soltanto per riavermi? Perché collabori con Ross? Perché collaborate con Vektor? Qual è il vostro piano?» un sorrisetto saccente le incurvò le labbra. «Sai, quando tuo padre mi disse che sarebbe stata una buona idea prendere te invece di Vektor non ero esattamente d'accordo.» la fulminai con uno sguardo. «Non è quello che ho chiesto!» interruppi, e lei ricambiò la mia occhiata carica d'ira. «Le vuoi le tue risposte o no, Arina?» serrai le labbra, presa in contropiede, infastidita dall'uso del mio vero nome. Non mi rappresentava più, non l'aveva mai fatto, ma questo lei non poteva saperlo... o forse si? Forse Vektor gliel'aveva detto, e si divertiva soltanto ad infastidirmi. Il mio silenzio la esortò a continuare. «Tu non eri esattamente il soggetto perfetto, eppure guardati adesso.» qualcosa le brillò negli occhi «Magnifica.» sussurrò, e il modo in cui mi fissava mi fece rabbrividire. Non era lo sguardo di una madre. Il suo sguardo si rabbuiò di scatto. «Poi tuo padre è morto,» si schiarì la gola «e Vektor ha deciso di seguire le sue orme.» scosse il capo. «Ma non poteva farcela da solo.» raddrizzò meglio le spalle. «Aveva ancora bisogno di me, proprio come tuo padre prima di lui, e così ho deciso di aiutarlo, ma restando nell'ombra. Nel mondo c'è molta più gente arrabbiata con gli Avengers di quanto credi, Arina, e quando ho avviato la mia associazione, cambiando il mio nome, quella è decollata senza che dovessi neanche muovere un dito.» scattai in avanti. «Il mio nome è Beth, e tu hai smesso di essere mia madre nell'esatto momento in cui papà mi ha portata via. Non sei mai venuta a trovarci, hai lasciato che lui mi plagiasse, per un certo periodo ho pensato fossi morta e poi sei semplicemente svanita dalla mia mente, e adesso vieni a dirmi che hai sempre mantenuto i contatti con Vektor anche dopo la morte di papà?» quasi ringhiai avvicinandomi al vetro. «Non me ne frega un cazzo, voglio soltanto sapere perché sono qui e che cosa avete intenzione di fare.» lei fece schioccare la lingua, in un gesto di disappunto, e sospirò. «Quando le cose a Vektor sono sfuggite di mano, con la tua fuga e il suo successivo arresto, mi sono ritrovata costretta a intervenire e mettere così in bilico la mia nuova posizione raggiunta. Sterminare gli Avengers era solo il primo passo verso il nostro progetto finale, e lui aveva fallito.» strabuzzai gli occhi, comprendendo con un momento di ritardo quello che intendeva davvero. Avevo sempre creduto che l'idea della Missione America fosse stata concepita da me e Vektor, invece ero stata plagiata ancora una volta, mossa come un burattino durante uno spettacolo di burattinai. Mia madre continuò senza rendersi conto del mio evidente stato di shock. «Così l'ho liberato, e poi sono venuta a cercare te.» mi sorrise a labbra strette. «Con l'aiuto di Ross, ovviamente, che ha sistemato anche il fallimento di Vektor». Tornai alla brandina, esausta, rendendomi conto che lo sproloquio di mia madre serviva soltanto ad evitare le mie domande. Poi le sue ultime parole mi colpirono come uno schiaffo. Tutta la campagna terroristica di Ross verso gli Avengers era nata soltanto perché la Missione America era fallita, aiutato dall'associazione di mia madre, che aveva fomentato la rabbia della popolazione fino a spingerli verso il burrone, e così si erano liberati di loro in un altro modo. Davanti al mio silenzio e alla mia perdita d'interesse, mia madre sbuffò spazientita. «Qual è il progetto finale?» domandai, poggiando la schiena alla parete. Le sorrise di nuovo. «In te c'è qualcosa di speciale che ci serve, ne sono sicura.» mi piegai leggermente in avanti a quelle parole. «Vuoi dirmi che sono qui e non sei neanche sicura io sia la chiave per il tuo progetto misterioso?» lei indurì la mascella, infastidita dal tono derisorio che avevo utilizzato, e si alzò di scatto. La sedia strisciò sul pavimento producendo un rumore stridulo e fastidioso. «Riposa adesso, tra poco verranno a prenderti.» disse soltanto, poi si allontanò accompagnata dal rumore dei suoi tacchi. Reclinai il capo all'indietro, il collare che cominciava a pesare, e chiusi gli occhi. Visualizzai davanti al me il muro, vi poggiai contro una mano, e Wanda fu immediatamente dall'altro lato. "È mia madre." dall'altro lato percepii un attimo d'insicurezza. "È sempre stata lei". Dall'altro lato vi fu un lieve tocco, così capii che il messaggio era stato recepito, e tornai alla realtà. Avrei voluto sapere di più, per poterlo comunicare, ma per il momento dovevo accontentarmi. Sovrappensiero, sfiorai coi polpastrelli il collare, e una malsana idea mi balzò alla mente. Forse potevo provare a liberarmene. Lo circondai con una mano, chiusi gli occhi e provai a richiamare il potere dell'elettricità che dormiva in me. Il collare emise un suono stridulo, che mi fece sobbalzare. La scarica elettrica che mi attraversò il corpo fu una totale sorpresa. Seduta sulla brandina, mi chinai in avanti, col fiato spezzato e gli occhi strabuzzati. Quando tornai a respirare normalmente, ero esterrefatta. Le braccia mi tremavano appena, ma sollevai entrambe le mani e le strinsi intorno al collare: provai di nuovo a richiamare l'elettricità, e il collare suonò di nuovo. Il suono acuto si diffuse nella cella, e prima che potessi prepararmi a quello che sarebbe venuto dopo, la scarica mi attraversò di colpo, facendomi schizzare la testa all'indietro e spezzandomi totalmente il respiro. Non mi fu neanche possibile urlare, non c'era abbastanza aria nei polmoni ed era impossibile immetterne altra. Era assurdo. Come diavolo avevano fatto a creare una cosa del genere? Come poteva quel collare bloccare i miei poteri? Capire che stavo per utilizzarli, e così attivarsi? Provai ancora, ma questa volta con un potere diverso, ma il risultato fu esattamente lo stesso. Le gambe e le braccia cominciarono a tremare per lo shock subito, la nausea mi assalì di colpo, insieme al rifiuto. Dovevo liberarmene quanto prima, altrimenti non avrei potuto combattere quando fosse arrivato il momento. La testa mi girò appena, ma fui costretta a concentrami sugli uomini armati che si fermarono davanti alla cella. Mi arresi, provando a scacciare via il panico. Non potevo risolvere quella situazione in quel momento, perciò avrei dovuto aspettare, e approfittare della prima occasione che mi fosse capitata. Alzai lo sguardo. Mia madre aveva ragione: due uomini dalle divise nere, insieme a quella che riconobbi come Evangeline, entrarono nella mia cella ad un orario indefinito. Non sapevo se fosse notte oppure giorno, non sapevo da quanto tempo ero lì, da quanto mia madre fosse andata via. L'unica cosa di cui ero consapevole era il collare che mi stringeva la base del collo, e il suo utilizzo. Il corpo mi doleva per tutte le scariche ricevute, e continuava a tremare. Continuò a tremare anche quando i due uomini si chinarono su di me per tirarmi su, un lieve velo di sudore m'imperlava la fronte e la nausea diventava man mano sempre più insopportabile. Forse le scariche erano più forti del previsto. Mi lasciai trascinare lungo i corridoi familiari dell'Alveare, poi giù lungo le scale, fino a raggiungere una stanza semi-circolare, senza fiatare, né oppormi. Un po' perché il mio compito lì era quello di raccogliere quante più informazioni possibili, ma anche perché non ne avevo assolutamente le forze. Ero esausta, riuscivo appena a camminare, e anche quello risultava difficile e claudicante. La porta elettronica si richiuse alle nostre spalle, sollevai il capo con uno sforzo e i miei occhi osservarono attentamente la stanza: era un Laboratorio. Molto simile a quelli di Shuri, ma decisamente più piccolo e meno attrezzato. Due uomini dai camici bianchi uguali a quello di Evangeline ci davano le spalle: uno trafficava con delle fialette vuote, sistemandole su un tavolino con ruote in metallo, l'altro sistemava la lampada scialitica appesa al di sopra di un lettino chirurgico, che dava alla stanza l'aria di una sala operatoria. Evangeline ci precedette verso quest'ultimo, i due soldati mi trascinarono fino ad esso e mi obbligarono a distendermi con poca grazia; uno dei due mi si posizionò davanti, incontrando il mio sguardo. Tutto quello che riuscivo a vedere, attraverso il casco integrale che indossava, erano gli occhi eterocromi gelidi come iceberg. Sollevò un piccolo telecomando con un solo bottone, lo sguardo gli si illuminò di divertimento, e quando lo premette una scarica mi scivolò di nuovo attraverso il corpo, così forte che incurvai la schiena e un grido roco mi risalì lungo la gola. «Basta così!» ordinò Evangeline, la voce atona mentre si chinava su di me per gettare un'occhiata alla pelle del collo. «È già abbastanza segnata, ha capito.» continuò, e la scarica finì così com'era cominciata. Un avvertimento muto, ma abbastanza chiaro: non dovevo fare scherzi. Tornai a guardare lo sconosciuto, il fiato corto e il cuore che mi batteva all'impazzata, e la voglia di colpirlo fino a farlo sanguinare mi accecò per un attimo; nel frattempo uno dei due assistenti di Evangeline si affrettò a legarmi i polsi e le caviglie al lettino, mentre l'altro avvicinava il carrello che avevo già adocchiato prima. Evangeline sistemò meglio la lampada, poi si chinò di nuovo verso di me. «Adesso ti preleveremo un po' di sangue, quindi sta ferma, altrimenti questo qui ti friggerà di nuovo, sono stata chiara?» annuii appena, ancora scossa dai brividi, mentre lottavo per non soffocarmi col mio stesso vomito perché la nausea, dopo quell'ultima scarica, era diventata insostenibile. Abbassai lo sguardo sul mio braccio destro e la osservai mentre affondava lentamente l'ago sottile nella carne; ero così stordita dal dolore che mi scuoteva il corpo con ondate regolari che neanche sentii la puntura. Fissai il mio sangue riempire una fialetta dopo l'altra, l'espressione seria di Evangeline, il silenzio assoluto in cui quella pratica veniva eseguita, e mi chiesi esattamente cosa stessero cercando. Cosa credevano di trovare nel mio sangue, nel mio Dna? T'Challa aveva detto che era una miniera d'oro per chi era interessato ai superpoteri, ma era davvero quello il loro scopo? E a cosa gli sarebbe servito? Evangeline mise fa parte le fialette ormai piene, le etichettò e fece scorrere il carrello nella direzione di uno dei suoi assistenti; poi mi liberò un polso, successivamente l'altro, e in fine le caviglie. «Riportatela alla sua cella.» ordinò, dandomi le spalle. Mi tirai leggermente su, ancora stordita e tremante, e l'uomo dagli occhi eterocromi mi afferrò per un braccio rimettendomi in piedi, poi mi trascinò fuori. Rifacemmo il percorso a ritroso, fino a raggiungere di nuovo la mia cella, ma ci impiegammo il doppio del tempo: salire le scale era uno sforzo immane. Sussultai quando notai la figura in attesa nel corridoio, Vektor invece mi sorrise. Fui spinta all'interno della cella, con poca attenzione, e il vetro scivolò di nuovo alle mie spalle, intrappolandomi nuovamente in quelle quattro mura. Mi lasciai cadere sulle brandina, esausta, scossa da mille brividi, mentre l'effetto delle scariche ancora persisteva. Vektor fece schioccare la lingua, attirando la mia attenzione su di sé. «E io che ero venuto qui per parlare.» si lamentò, mentre mi distendevo sulla superficie scomoda. Mi sfuggì un risolino stizzito. «Credo...dovrai...aspettare...» mormorai, tra un brivido e l'altro. Vektor annuì, prese un profondo respiro e s'inginocchiò avvicinandosi quanto più poteva al vetro.
«Ti consiglio di non provare più ad utilizzare i tuoi poteri, Betty.» calcò sul mio nome, ma le palpebre cominciavano a diventare pesanti e prestare attenzione alle sue parole era sempre più difficile. Lui se ne accorse, e si tirò su. «L'ho creato io, basandomi sulla nostra ultima esperienza insieme, e se continuerai a provarci, ti ucciderà.» spiegò, come se fosse la cosa più normale al mondo. Ecco perché ricordava vagamente gli effetti dell'elettroshock a cui mi sottoponeva. Aprii la bocca per ribattere che non me ne fregava proprio nulla, che avrei preferito morire piuttosto che aiutarli in qualsiasi piano stessero architettando, che l'avrei fatto se non avessi avuto altra scelta, anche se era doloroso da farmi piangere, ma non ci riuscii. Gli occhi mi si chiusero, lentamente, e l'ultima cosa che vidi fu il sorriso divertito di Vektor, mentre mi guardava perdere i sensi grazie alla sua ultima invenzione.

Survivor. |Bucky Barnes Fanfiction.Kde žijí příběhy. Začni objevovat