15|| the hive. [pt.1]

1.4K 102 39
                                    

Il viaggio fu nauseante.
La velocità eccessiva, i continui sballottamenti dovuti ai vuoti d'aria, il tutto misto all'ansia e all'adrenalina che aveva preso possesso del mio corpo, mi attorcigliò così tanto lo stomaco che rischiai di vomitarmi addosso almeno tre volte.
Steve, seduto di fronte a me, non sembrò invece subire gli effetti di quel viaggio infernale; solo di tanto in tanto, quando il vuoto d'aria era troppo profondo, lo vedevo socchiudere gli occhi, come colpito da un ricordo scomodo che tentava in tutti i modi di soffocare. Un trauma. E anche bello grande.
Non feci altre domande; in realtà, nessuno dei due parlò finché la velocità non rallentò gradualmente e il Quinjet cominciò le manovre d'atterraggio. Tirai un sospiro di sollievo e lasciai andare la cintura, che avevo stretto così tanto che la stampa frastagliata mi aveva segnato il palmo. Vidi Steve fare lo stesso.
Quanto era durato? Due ore? Tre? Non lo sapevo, ma era stato orribile.
«Un viaggio traumatico.» mormorai, sganciando la cintura, senza però alzarmi; avevo ancora la nausea, il collo e le mani intorpidite dalla postura rigida e dalla stretta.
«Ed era solo il viaggio di andata.» ribatté Steve, sganciando la sua cintura. Sollevai lo sguardo su di lui, risentita, e mi alzai: stiracchiai le braccia sopra alla testa, poi le gambe e feci scrocchiare la schiena.
Ero indolenzita, la stanchezza latente tornò a farsi prepotentemente sentire, le ginocchia mi cedettero per un istante e fui colta da un giramento di testa; le orecchie si sturarono all'improvviso con un tonfo fastidioso.
Neanche mi ero accorta fossero otturate.
«Non è divertente!» lo rimproverai, avvicinandomi alla console di comando.
Fuori, il cielo era plumbeo, un tuono squarciò l'aria preceduto da un fulmine, che illuminò le nuvole dense e grigie; un brivido mi scivolò sulla schiena e una brutta sensazione s'impossessò di me. Il portellone cominciò la sua lenta discesa, cogliendoci di sorpresa; Shuri doveva aver programmato l'apertura automatica una volta atterrati.
«Credi che Tony e Nat siano già qui?» chiesi, avvicinandomi all'armamentario. Non avevo riposto le armi che avevo preso durante il viaggio precedente, perciò non c'era molto d'aggiungere; anche il Dudu Mamba era ancora in mio possesso e così decisi di portarlo con me, agganciandolo meglio alla vita.
Alzai lo sguardo su Steve e lo trovai intento a provare un nuovo scudo: era più piccolo, in grado di allargarsi, di un nero scintillante con cromature argentee; non gli s'addiceva molto. Lui ricambiò il mio sguardo e nelle sue iridi lessi la stessa titubanza, ma durò il tempo di un battito di ciglia: quando tornai ad incrociare il suo sguardo l'accenno di titubanza era sparito, sostituita da una certa determinazione, e lui si apprestava ad agganciare per bene la cinghia del nuovo scudo all'avambraccio. Lo precedetti verso l'esterno, la mano pronta a scattare verso la mia nuova arma, e una volta fuori fui colpita al viso da un vento violento, freddo, e i piedi affondarono in uno strato spesso di neve fresca.
Un nuovo tuono squarciò l'aria, la luce del fulmine che lo precedette si rifletté sulla superficie lucida di un secondo Quinjet; a dividerci soltanto pochi metri. Ci trovavamo in una radura abbastanza grande da contenere entrambi i velivoli, ma non così tanto da attirare l'attenzione; gli alberi che ci circondavano erano ricoperti di fresca e candida neve, un misto di verde e bianco che doleva gli occhi ad un primo sguardo, ma che poi conquistava e spezzava il fiato. L'aria fresca era pulita, completamente diversa da quella del Wakanda o di qualsiasi altra città, e faceva dolere il petto mentre scivolava giù fino a riempire i polmoni. Il silenzio era interrotto di tanto in tanto dal cinguettio degli uccelli, alle mie spalle Steve era teso e pronto a scattare al minimo rumore molesto; il portellone del secondo Quinjet si aprì, lentamente, e la figura snella di Nat fece tirare un sospiro di sollievo ad entrambi. Tony, dietro di lei, indossava già la sua scintillante armatura, che tra quel bianco sembrava spiccare come la fiamma viva del fuoco in una notte di buio.
«Come ci muoviamo?» domandò Nat, non appena fu abbastanza vicina, la voce ovattata dalle raffiche di vento che diventavano sempre più violente; l'auricolare gracchiò all'improvviso e la voce di Shuri si diffuse un po' a tratti.
«Mi sentite?» domandò, la voce che andava e veniva. «Dovete inoltrarvi nel bosco, verso le montagne. È lì che portano le coordinate. Non so se si tratti di una grotta oppure di una struttura esterna, perciò dovete essere cauti.» continuò, a scatti.
«D'accordo!» confermai, poi feci scivolare lo sguardo su tutti i presenti, fino a posare gli occhi su Steve; di solito era lui a proporre strategie, ma dall'occhiata che mi rifilò capii che non sapeva come muoversi.
«Dividiamoci e cerchiamo prima una qualsiasi grotta che potrebbe portare a qualche struttura sotterranea, ho ragione di credere che non siano rinchiusi in bella vista.» ordinai, alla ricerca della vecchia autorità che un tempo avevo posseduto. Ci furono alcuni secondi di silenzio, nessuno obiettò a ciò che avevo appena detto, così decisi di continuare.
«Io e Nat andiamo da quella parte, voi dall'altra. Ci verremo in contro, senza dare nell'occhio, così ci rincontreremo giusto a metà. Se trovate la grotta, non entrateci: potrebbe essere una trappola o comunque molto pericoloso. Decideremo come muoverci una volta riuniti.» indicai le rispettive direzioni, poi attesi una qualsiasi obiezione. Al contrario di quanto pensassi, però, Nat si affrettò a prendere il posto di Steve mentre quest'ultimo raggiungeva Tony.
«Per qualsiasi emergenza usate gli auricolari.» esclamò Steve, indicando il suddetto oggetto.
«Forza!» ci esortò Tony e così ci disperdemmo.
Insieme a Nat mi addentrai nel folto bosco, stando ben attenta a non inciampare nelle radici dei grossi alberi coperte di neve, a non procurare troppo rumore mentre i miei anfibi calpestavano la neve fresca, a ignorare il tarlo e quella sensazione orribile che mi aveva pervaso precedentemente nel Quinjet.
«Nat!» chiamai, a voce bassa, mentre procedevamo spedite senza guardarci indietro: la montagna era ancora lontana, ne potevamo vedere la punta oltre le cime degli alberi. «Devo dirti una cosa.» continuai, anche se lei non mi aveva degnata di uno sguardo; sapevo che mi stava ascoltando.
«Cioè?» domandò lei, rallentando appena così da potersi ritrovare al mio fianco.
«Ho visto Wanda!» buttai lì «Nell'appartamento che condivideva con Visione.» aggiunsi poi, e lei si fermò di scatto; la imitai e mi voltai per guardarla: sul volto aveva un'espressione scioccata e confusa, la postura irrigidita dalla sorpresa.
«Cosa vuoi dire?» soffiò, senza spostare lo sguardo dal mio viso, un sopracciglio leggermente inarcato.
«Che l'ho vista.» dissi «Si è proiettata nell'appartamento entrandomi nella testa. Voleva sapere a che punto fossimo, darmi informazioni, nella disperazione totale.» continuai poi, distogliendo per un attimo lo sguardo da lei. «Ha perso il controllo...» mormorai «poi qualcuno l'ha sedata e il legame si è spezzato all'improvviso.» conclusi, in fine, tornando a guardarla. Natasha esalò un pesante respiro, le spalle le si rilassarono di botto, si portò una mano al cuore ed arretrò di un passo; qualcosa, in quello che avevo detto, sembrava averla particolarmente ferita.
«Mio dio.» sussurrò, scuotendo appena il capo. Improvvisamente mi parve terribilmente fragile, spogliata della sua corazza da spia, e io capii che non era stata una buona idea renderla partecipe di quella situazione. Ci furono alcuni secondi di assoluto silenzio, poi lei si raddrizzò, i capelli scompigliati dal vento freddo, sul viso ancora un'espressione turbata, ma meno sorpresa di prima; negli occhi una determinazione nuova.
«Dobbiamo trovarli!» disse, con voce sicura, poi riprese a camminare e io mi affrettai a seguirla.
Improvvisamente, ricordai le parole che mi aveva detto Wanda sul loro arrivo e portai velocemente un dito a premere sull'auricolare.
«Tony!» dissi, il tono di voce più basso mentre il limitare del bosco si faceva sempre più vicino, i pendii della montagna più visibili.
«Cosa succede?» rispose immediatamente lui, la voce resa leggermente meccanica.
«Cerca una pista d'atterraggio, o qualcosa che possa fungere da base per l'atterraggio di un elicottero.» ordinai, alzando per un attimo lo sguardo verso il cielo: la sagoma di Tony apparve all'improvviso e io lo fissai mentre sorvolava il bosco per raggiungere la montagna.
«Beth!» chiamò Natasha, attirando la mia attenzione: si era accovacciata dietro un albero e m'invitava a raggiungerla con gesti veloci della mano; obbedii, accovacciandomi come lei dietro un albero vicino. Il mio sguardo individuò immediatamente il duo di Soldati che marciava a passo moderato, con una coordinazione strabiliante. Una ronda in un posto sperduto come quello? Era un buon inizio.
Lanciai un'occhiata a Nat, che m'intimò di aspettare con un gesto della mano: i Soldati ci superarono, senza notarci, intenti a chiacchierare tra loro di qualcosa che non riuscii a capire, rilassati, poi aspettammo. Interminabili minuti, nel silenzio inquietante del bosco, al freddo e con gli stivali immersi nella neve gelida. L'auricolare gracchiò.
«Ragazzina, come facevi a sapere della pista d'atterraggio?» domandò, con voce curiosa e meccanica, Tony.
«È una lunga storia!» ribattei «L'hai trovata?» chiesi poi, la voce ridotta a un sussurro e intrisa di speranza; Nat mi lanciò una veloce occhiata, poi sfilò l'auricolare e avanzò di un passo, così da poter individuare i due soldati nel caso fossero tornati indietro.
«Si, ben nascosta tra le montagne.» ribatté lui e io mi resi conto d'aver trattenuto il fiato soltanto quando buttai fuori un lungo sospiro.
«Sono qui.» mormorai, sollevando per un attimo lo sguardo verso il cielo; il tarlo si muoveva, inquieto, attirandomi verso la montagna. Tornai da Nat, accovacciandomi di nuovo al suo fianco. «Sono qui!» ripetei, lei m'intimò di restare in silenzio. I Soldati riapparvero, preceduto dal tintinnio delle armi, e prima che potessi anche solo chiedere a Nat come muoverci lei scivolò sulla neve, agganciò le sue gambe a quelle di uno dei Soldati, spedendolo al tappeto: allo stesso tempo, facendosi forza in avanti, sfilò il manganello dalla cintura e colpì il secondo soldato prima nelle giunture, per portarlo al suo livello, dopodiché cambiò impugnatura e lo colpì prima al collo e poi alla tempia, mettendolo K.O. Si concentrò poi sul primo soldato: gli colpì il polso, lui perse la presa sul fucile che finì dritto nelle sue mani. Nat lo imbracciò e, con un colpo secco, tramortì il Soldato senza dargli neanche il tempo di urlare; il tutto successe in meno di due minuti. La fissai, sconvolta, poi lentamente mi raddrizzai; lei soffiò via un ciuffo di capelli biondi dal viso, puntò lo sguardo su di me e si rialzò, scrollandosi via la neve dai guanti e dalle ginocchia.
«Ora vediamo dove ci portano le loro orme.» disse, rispondendo alla domanda che stavo per porle. «Ma prima nascondiamo questi.» continuò poi, indicando i corpi incoscienti che riversavano faccia nella neve ai suoi piedi.
Ne afferrai uno per le caviglie e lo strascinai via, seguita da lei, fino ad un ammasso di cespugli che utilizzammo per coprirli; dopodiché tornammo indietro, cancellando le nostre tracce come potevamo. Una volta tornate ai pendii della montagna, ripercorremmo i passi dei due Soldati, stando ben attente a non lasciare nuove impronte sospette; procedemmo nel silenzio assoluto, il cuore che batteva all'impazzata, le dita intorpidite dal freddo gelido. Entrambe temevamo la comparsa di altri Soldati, ma procedemmo tranquille, almeno finché le impronte non si stopparono all'improvviso: così, come se i due soldati avessero improvvisamente deciso di tornare indietro. Intorno a noi c'erano solo neve e alberi, la parete rocciosa della montagna si estendeva in altezza a perdita d'occhio.
Tra me e Nat ci fu uno sguardo confuso, poi il tarlo prese a dibattersi ancora più velocemente, spingendomi quasi letteralmente verso il pendio della montagna; Nat restò a fissarmi mentre mi avvicinavo cautamente alla parete rocciosa. Ne tastai la superficie, i polpastrelli che si graffiavano a contatto con le irregolarità segmentate, poi la mia mano sprofondò nel nulla e davanti ai miei occhi qualcosa tremolò, dandomi momentaneamente accesso a quello che sembrava un lungo corridoio; la parete riapparve quasi immediatamente.
«Un ologramma!» esclamò Natasha, alla mia sinistra, soffocando un verso di sorpresa.
Il sibilo dell'armatura di Tony sorprese entrambe, poi lui atterrò alla mia destra con un tonfo riconoscibile e, alcuni attimo dopo, anche Steve ci raggiunse, sbucando dagli alberi.
«Avevamo detto d'incontrarci al centro.» protestò Natasha, al che Steve ripose lo scudo.
«Siamo a metà!» ribatté, puntando lo sguardo cristallino sulla parete rocciosa.
«Abbiamo incontrato dei Soldati, lungo il tragitto, ma li abbiamo messi fuori combattimento.» spiegò Tony, la nanotecnologia che scompariva velocemente dalla sua faccia, portando alla luce il suo viso.
«Lo stesso vale per noi, e guardate cos'altro abbiamo scoperto.» ribattei io, affondando di nuovo il braccio nell'ologramma, che scomparve di nuovo per qualche attimo. Calò un silenzio pesante, sgomento, poi tra noi scivolò uno sguardo familiare e deciso, che s'impresse sul viso di ognuno di noi. Avanzai, inoltrandomi nell'ologramma, finché non mi ritrovai dall'altra parte; Nat mi seguì immediatamente, e dopo di lei anche Tony e Steve.
Il corridoio che ci ritrovammo davanti era vuoto, semibuio, e s'interrompeva a metà con una porta in doppio ferro, a cui era possibile accedere solo attraverso un palmare.
«E adesso?» chiesi, voltandomi verso il resto del gruppo, quando ci ritrovammo a fissare la porta invalicabile che ci sbarrava la strada; Tony mi superò, il casco di nuovo visibile, e in silenzio scannerizzò la tastiera numerica. Riuscii a sentire il 'bip' di fine processo che gli rimbombò nelle orecchie, poi, ancora in silenzio, prese a digitare una cifra. Per i successivi trenta secondi non accadde assolutamente nulla, poi una luce verde illuminò lo schermo del tastierino e la porta prese ad aprirsi lentamente: tutto successe velocemente. Il rumore delle armi, lo scudo di Steve che rimbalzava contro le pareti e s'infrangeva sui quattro uomini che ci ritrovammo davanti, stretti nelle loro divise, uno dopo l'altro: caddero come birilli, in modo quasi surreale, accasciandosi sul pavimento grigio e freddo del corridoio. Avanzammo, cauti, senza bisogno di coordinarci, finché il buio del corridoio non cominciò a sparire: ci ritrovammo sul parapetto di una rampa di scale che si dislocava verso il basso alla nostra destra mentre invece, a sinistra, procedeva verso l'altro; mi sporsi oltre, gettando prima un'occhiata verso il basso e poi verso l'alto. Capii perché lo chiamavano "Alveare".
Piani e piani di corridoio che si disperdevano e univano senza un ordine preciso, scale che portavano in ogni direzione, luci bianche che splendevano sulle pareti grigie e lucide dei corridoi; rabbrividii e il tarlo riprese a combattere contro la mia resistenza.
«Dobbiamo scendere.» dissi, con un fil di voce, precedendo tutti gli altri verso la scalinata dai gradini ripidi e larghi.
«Beth!» chiamò Natasha, subito dietro di me, con l'intento di fermarmi, ma non le diedi ascolto. Qualcosa mi diceva di scendere e io decisi di dargli ascolto: ad ogni gradino, la sensazione aumentava sempre di più, spingendomi ad aumentare l'andatura, tanto che per un momento sentii i miei stessi passi rimbombarmi nelle orecchie; mi costrinsi a rallentare, per non rischiare di essere scoperti per una stupidaggine, e poi, arrivata alla fine dell'ennesima rampa, i miei occhi catturarono qualcosa di sconvolgente. M'inoltrai nel corridoio che avevo davanti, illuminato a giorno da forti luci al neon bianche, e un verso di frustrazione e shock mi si bloccò in gola; fu quasi come soffocare per me.
«Ma cosa...» mormorò Steve, alle mie spalle, la voce intrisa dello stesso sgomento che stavamo provando tutti, in realtà. Feci scorrere lo sguardo sulla fila infinita di celle che si susseguivano con regolare cadenza: piccole, bianche, una porta in vetro antiproiettile che non poteva essere infranto; aldilà del vetro, volti tetri e sconosciuti, di qualsiasi sesso ed età. Sussultai quando il mio sguardo si posò sul corpicino rannicchiato di una bambina: se ne stava seduta sul pavimento, un album da disegno aperto davanti, i pastelli dai colori forti dispersi per la stanza che cozzavano col candore generale; uno dei prigionieri ci notò.
Si avvicinò al vetro, gli occhi fissi su di noi, poi le sue mani accarezzarono il vetro trasparente e io mi trovai a fissare delle pinne: le dita unite, la pelle viscida. La verità di quello che stavo osservando mi colpì in pieno viso come uno schiaffo. «Sono Superumani.» mormorai, avanzando lentamente. «Ma che posto è mai questo?» chiesi poi, mentre sempre più detenuti si accorgevano della nostra presenza. «L'inferno di Ross, ecco cos'è.» rispose Steve, facendo scivolare lo sguardo sulla fila infinita di celle, asettiche e piccole.
«Dobbiamo liberarli.» esclamai, voltandomi verso Tony, che boccheggiò per un attimo prima di lanciare uno sguardo a Natasha.
«Ci pensiamo noi!» rispose quest'ultima, ricambiando l'occhiata di Tony.
«Sono giù!» esclamò, all'improvviso, uno dei detenuti, col viso così vicino al vetro che la punta del naso gli si schiacciava. «Il resto di voi.» aggiunse poi, indicando la direzione da dov'eravamo arrivati.
«Al piano inferiore, è lì che li hanno portati.»
parlò un altro e io mi resi improvvisamente conto che non avevamo incontrato una sola guardia durante tutta la discesa; m'insospettii, e quell'intervento improvviso servì a gettare soltanto ulteriori ombre sulla questione.
«Grazie.» esclamò Steve, avviandosi verso le scale, seguito da Tony e Nat; io restai a fissare i due detenuti che avevano parlato per qualche secondo, poi mi unii al resto del gruppo mentre il tarlo riprendeva a dibattersi.
«Fate attenzione!» stava raccomandando Steve quando li raggiunsi: Tony e Nat risalirono in silenzio i gradini, tra me e Steve ci fu uno sguardo d'intesa, poi ci dirigemmo verso le scale e riprendemmo la discesa; voci leggere ci raggiunsero dopo aver superato altre due rampe. Ci trovavamo all'ultimo piano, non c'erano più scale davanti a noi, ma solo un corridoio ben illuminato: a differenza di quelli precedenti, le pareti di quest'ultimo erano completamente in marmo, nessuna cella era presente, tranne per una porta dalla serratura elettronica; di guardia c'erano tre guardie, più un uomo dalla stazza imponente e completamente sprovvisto di armi. Un brivido di avvertimento mi scivolò lungo la schiena e, prima che me ne accorgessi, mi ritrovai ad afferrare il braccio di Steve per fermare il suo attacco: c'era qualcosa d'inquietante nella sicurezza che leggevo sul viso di quello sconosciuto, qualcosa che non mi convinse.
«Cosa?» domandò Steve, rannicchiandosi al mio fianco: eravamo ben nascosti, appiattiti al muro, così vicini che le ginocchia si sfioravano.
«Perché mettere di guardia quattro uomini ma armarne soltanto tre?» chiesi, sporgendomi per lanciare un'altra occhiata alla ronda: l'uomo sostava davanti alla porta, le mani incrociate dietro la schiena, lo sguardo imperturbabile a incorniciare un'espressione tetra. Non c'era senso in quello schieramento. Tra me e Steve ci fu uno scambio veloci di sguardi, poi lui si staccò dal muro e imbracciò lo scudo, restando comunque accovacciato per non essere visto.
«Cauti.» mormorò, senza sbattere le palpebre mentre fissava tre dei quattro presenti: si sollevò di scatto e lanciò lo scudo, quello fendette l'aria e rimbalzò contro il muro assumendo una particolare inclinazione. Lo vidi tornare indietro e abbattersi contro il fianco di uno delle tre guardie armate, che soffocò il rumore di ossa spezzate in un verso di dolore emesso pochi attimi prima di strapazzare a terra, poi rimbalzò di nuovo contro il muro ad una velocità disumana e colpì un altra guardia al petto: questo venne sbalzato all'indietro, sbatté contro il muro e poi crollò a terra. La terza guardia riuscì a sfiorare il primo colpo, ma lo scudo non perse velocità, rimbalzò contro il muro quasi avesse vita propria e tornò indietro, colpendo la guardia alla base della schiena: vidi gli occhi di quest'ultimo rovesciarsi anche da quella distanza, poi l'uomo stramazzò a terra come i suoi colleghi. Lo scudo deviò verso il quarto uomo, che non si era mosso di un centimetro, né si scompose quando vide l'oggetto saettare verso di lui: lo fissai mentre sollevava lentamente il braccio e un verso indecifrabile mi fuoriuscì dalle labbra quando lo scudo s'infranse contro il suo palmo, arrestando la sua corsa; ricadde al suolo con un frastuono assordante. Il rumore rimbalzò sulle pareti mentre l'uomo ispezionava il corridoio con lo sguardo fino a raggiungere la figura di Steve, pietrificato dalla sorpresa. Diventai invisibile nell'esatto momento in cui l'uomo scattava in avanti, i passi pesanti che sembravano sprofondare nel pavimento, e mi alzai in piedi; al mio fianco, Steve si preparò al combattimento. «Lo scudo!» sussurrò nella mia direzione, ben conscio del fatto che fossi ancora al suo fianco. «Prendilo!» aggiunse poi, alzando i pugni in posizione di difesa. Scattai in avanti senza farmelo ripetere due volte, attraversai il corridoio con passo felpato fino a superare la guardia e raggiunsi lo scudo: lo imbracciai con dita tremanti, il peso che mi gravava sul braccio non abituato, poi puntai i piedi per darmi stabilità, tirai indietro il braccio e lanciai. Steve fissò la superficie lucente dello scudo fendere l'aria ad una velocità strabiliante, evitò un pugno e ne restituì uno all'altezza del ventre, ma l'uomo sembrò captarne comunque il sibilo: si girò di scatto e portò l'avambraccio a schermargli il viso, io tornai visibile e restai a fissare esterrefatta la scocca di metallo che aveva preso il posto della pelle.
«Un mutaforma.» mormorai, mentre l'uomo incastrava il suo sguardo vitreo al mio. Scattò in avanti prima che me ne rendessi conto, a metà strada saltò e provò a colpirmi dall'alto con entrambi i pugni: deviai verso destra con una velocità che non ricordavo di avere, il corpo teso dall'adrenalina, poi sfiorai appena il fianco dell'uomo e una scarica elettrica mi attraversò la mano, diramandosi alla sua pelle. Lo sentii trattenere il fiato per il dolore e per la sorpresa, poi abbassò lo sguardo sulla mia mano e mi afferrò il polso con uno scatto repentino; la presa ferrea mi spezzò il respiro, ma rigettai il dolore nelle profondità da dov'era venuto. Lo colpii al petto con un pugno, le nocche che si scontravano contro i muscoli ferrei, intrappolata tra lui e il muro alle mie spalle, poi aprii il palmo e concentrai tutto il mio potere esattamente in quel punto: vidi quasi distintamente l'elettricità fuoriuscire dai miei polpastrelli. Un verso di dolore fuoriuscì dalle labbra dell'uomo, che allentò la presa sul polso: le gambe gli cedettero per un secondo, il verso si trasformo in un piccolo urlo e io rincarai la dose mentre, alle sue spalle, Steve recuperava lo scudo dal pavimento e si preparava a lanciare. Il Mutaforma mi colpì al viso dal basso, cogliendomi di sorpresa, e io sentii distintamente il labbro inferiore scontrarsi coi denti e spaccarsi, il sangue mi scivolò sul mento, il dolore mi accecò per un attimo, poi lo scudo colpì l'uomo alle spalle e io mi costrinsi a raccogliere tutte le energie che avevo. Poggiai anche la seconda mano sul petto dell'uomo mentre alle sue spalle Steve scagliava di nuovo lo scudo, colpendolo alle giunture, e concentrai tutto il mio potere lì, nei due palmi a contatto con la maglia nera. L'elettricità si propagò nell'aria, le luci al neon esplosero una dietro l'altra, l'uomo fu scosso da spasmi violenti mentre le scariche gli attraversavano il corpo, i palmi presero a pizzicare per lo sforzo, così come i polpastrelli. Quando lo vidi ricadere in ginocchio e poi stramazzare al pavimento, gli occhi rovesciati all'indietro e il corpo molle, l'adrenalina sparì tutta in una volta e io sentii tutta la fatica dello sforzo appena fatto piombarmi addosso: le ginocchia mi cedettero, Steve lasciò andare lo scudo e mi afferro pochi istanti prima che finissi in ginocchio sul pavimento. «Stai bene?» domandò, per poi fissare lo sguardo sull'uomo che giaceva ai nostri piedi. «Ma come diavolo hai fatto?» domandò poi, riportando lo sguardo a me.
«È una lunga storia.» mormorai, lanciando un'occhiata alla porta che si trovava alle nostre spalle. «Sbrighiamoci!» aggiunsi poi, il tarlo tornò a farsi sentire all'improvviso. Mi staccai da Steve e lui lasciò andare la presa sul mio avambraccio, poi raggiunsi la porta con passo titubante e un sospiro rassegnati mi sfuggì dalle labbra; Steve fu subito al mio fianco.
«Ci vuole una carta magnetica.» dissi, indicando la serratura elettronica; asciugai il sangue dal mento col palmo della mano e mi voltai verso il Mutaforma riverso a terra. Era l'unico veramente in grado di proteggere quella porta, perciò doveva essere l'unico ad ottenere la chiave di accesso: mi avvicinai a lui e mi chinai sul suo corpo, cercai nelle tasche e vicino alla cintura, poi vidi la catenina appesa al collo e lanciai un'occhiata a Steve.
«Aiutami a girarlo.» dissi, lui non se lo fece ripetere due volte. Lo rivoltammo sulla schiena, poi gli infilai una mano sotto la maglia e sussultai quando le mie dita sfiorarono la carta magnetica; Steve soffocò un sorriso quando la tirai fuori, rigirandomela tra le dita.
Ci rialzammo, stanchi e illuminati solo da fioche luci di emergenza, poi insieme ci avvicinammo alla serratura: feci scorrere la carta magnetica nella fessura apposita, lo schermo del tastierino s'illuminò di un verde luminoso, che sembrò riflettersi nei nostri occhi, poi un rumore metallico si diffuse nel corridoio. La porta prese ad aprirsi, lentamente, dandoci accesso ad un'altra scalinata: il tarlo mi esplose nel petto.





────────────────────



─author's space:
Good evening, readers

Prima di tutto, mi dispiace.
Non era mia intenzione fare due parti di questo capitolo, ma a un certo punto mi sono resa conto d'aver superato le quattromila parole e, visto che voglio dare la giusta importanza a ciò che deve succedere e che non volevo ridurre tutto a poche parole finali, mi sono resa conto che l'unica soluzione era dividerlo. Lo so, mi dispiace, mi odierete e avete ragione.
Spero però che il capitolo vi piaccia comunque e mi scuso per i lunghi tempi di pubblicazione ma il lavoro mi occupa tutta la giornata quindi scrivo non appena ho tempo.
Fatemi sapere cosa pensate del nuovo capitolo e cosa, secondo voi, succederà adesso.
Un bacio,
lily♥



Survivor. |Bucky Barnes Fanfiction.Where stories live. Discover now