19|| rumors has it.

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A svegliarmi fu la sete.
Violenta, implacabile e spossante.
Avevo la gola così secca che mi era impossibile deglutire, le labbra screpolate per la mancanza di liquidi e quell'impulso infrenabile di scalciare via le coperte e afferrare la prima bottiglia che mi capitava sotto mano; non mi era possibile, sia perché fisicamente non ero ancora in grado di muovermi velocemente, sia perché non potevo ingerire grosse quantità d'acqua visto che venivo idratata e nutrita tramite flebo.
Quando aprii gli occhi il Laboratorio era vuoto, immerso nel buio tranne per una fioca luce lasciata gentilmente accesa da Shuri, per permettermi di vedere nel caso, quasi certo, mi fossi svegliata nel bel mezzo della notte; fuori il cielo era ancora scuro, nessun rumore proveniva dai corridoi, né dai monitor, che erano stati spenti. Mi sollevai fino a sedermi, gli occhi che cascavano per il sonno, poi spostai le coperte e lasciai scivolare le gambe oltre il bordo del letto: mi ricordai della flebo un attimo prima di slanciarmi in avanti, i piedi a solo qualche centimetro dal pavimento. Quella pendeva sulla mia testa come una spada di Damocle, sbatacchiando ad ogni minimo movimento, perciò trascinai di nuovo le gambe a letto solo per farle ri-scivolare dall'altro lato, così che potessi aggrapparmi all'asta della flebo e portarla con me, utilizzandola un po' come bastone d'appoggio. Il pavimento era freddo quando i miei piedi nudi lo sfiorarono, più freddo dell'asta stessa, ma mi ci volle qualche secondo, in cui raccolsi tutto il mio coraggio, prima di provare ad alzarmi; ero a letto da tre giorni, in cui non mi ero praticamente mossa. Il mio terrore più grande erano i punti, non quelli esterni ma quelli interni, che sembravano essere davvero tanti; al mio risveglio Shuri mi aveva raccontato tutto nei minimi dettagli, seppur titubante: il colpo aveva trapassato lo stomaco e lesionato le pareti in modo profondo. Le ci erano volute ore per fermare l'emorragia e ricostruire le pareti lesionate dell'apparato digerente, senza contare tutte le conoscenze a cui aveva dovuto dar fondo; mi ci erano volute due trasfusioni, una notte di sonno ininterrotto e un flusso continuo di flebo per ritornare totalmente lucida. Certo, la Perla Kimono aveva aiutato, ma per qualche motivo non era riuscita ad agire completamente; aveva parlato del mio DNA, ma per me era stato difficile seguirla. Perciò, ingerire cibo solido era fortemente sconsigliato, perché il rischio di far saltare i punti era alto e un altro intervento era praticamente fuori discussione, non dopo essere sopravvissuta a un arresto cardiaco nel bel mezzo dell'operazione. Di questo non ne era al corrente nessuno, neanche T'Challa. Avevo pregato Shuri, con tutto il fiato di cui disponevo, di eliminare quel particolare dal racconto: erano già tutti preoccupati e super attenti, fargli sapere che per cinque minuti ero praticamente morta su quel lettino non avrebbe migliorato la situazione. Bastava soltanto che non mi agitassi, per nessuna ragione al mondo.
Perciò, provai a trasferire tutta la forza nelle braccia e mi aggrappai all'asta, ma le gambe ressero il peso solo per qualche secondo, poi ricaddi all'indietro pesantemente sul materasso, che si piegò sotto al mio peso; imprecai tra i denti, le nocche bianche per la presa, il cuore che mi batteva all'impazzata.
«Dovresti farti aiutare.» esclamò, all'improvviso, una voce che conoscevo terribilmente bene. Fu come un fulmine che squarcia il cielo, uno di quei tuoni così forti da rimbombarti nelle orecchie anche quando sono passati; non ebbi il coraggio di voltarmi, persi la presa sull'asta, mi aggrappai voracemente al materasso. Le spalle tese. Il cuore fermo.
Non l'avevo sentito entrare, troppo impegnata com'ero sui miei sforzi, e adesso era lì; né sentivo la stazza, il respiro, il battito delle ciglia. Ogni fibra del mio corpo sembrava attratta dal calore che sprigionava.
«È pericoloso alzarti così, dopo giorni di fermo.» continuò, come se la conversazione tra noi fosse la cosa più normale del mondo.
Come se non fosse scomparso, come se non avesse mai scritto quella lettera, come se non fossero passati tre interi giorni prima di degnarsi di venire a vedere come stessi.
Tre giorni. Settantadue ore. Quattromila minuti. All'incirca duecentomila secondi.
«Beth.» chiamò dopo qualche secondo, la voce più bassa di un'ottava, implorante. «Parlami.» mormorò, e io non ci vidi più. Strinsi così forte le lenzuola che le nocche mi divennero bianche, una rabbia repressa per troppo tempo mi ustionò la gola mentre risaliva su come bile, eppure non ebbi la forza di urlare, né di piangere; semplicemente mi voltai verso di lui, i capelli che mi sferzavano il viso.
Guardarlo mi fece male, fisicamente, mentalmente. Era poggiato ad uno dei tavoli, la maglia nera che gli delineava il fisico più asciutto, un nuovo braccio bionico nascosto dal tessuto, i Jeans morbidi, i capelli corti e spettinati che gli ricadevano davanti agli occhi segnati dalle occhiaie. Era bello come lo ricordavo, come l'ultima volta che l'avevo visto, forse di più, non ne ero sicura. Mi confondeva.
«Non ho nulla da dirti.» mormorai a denti stretti, nel vano tentativo di trattenere tutta la mole di rancore che provavo nei suoi confronti e ammutolire l'altra parte di me, che si dibatteva alla vista del suo sguardo, al suono della sua voce. «Nulla che tu non possa immaginare, né non sappia già.» ribattei. Abbassò il capo, si schiarì la gola, prese un lungo respiro e tornò a guardarmi, più serio, più James e meno Bucky.
Si preparava a ricevere un colpo che non avrei sferrato; una sfuriata, un crollo. Ma io non ero più la ragazza di un anno e mezzo prima, e anche lui era cambiato, potevo leggerglielo addosso, nello sguardo. «Puoi anche andare.» dissi, aggrappandomi di nuovo all'asta; distolsi lo sguardo e mi concentrai di nuovo sulle mie gambe. Presi un profondo respiro, feci quanta più forza potevo e mi tirai su, più salda dell'ultima volta; le gambe ressero, in un primo momento. Ritrovarmelo vicino, però, spazzò via tutta la mia concentrazione: atterrai sul letto sgraziatamente e provai a scivolare via, rannicchiandomi sulle lenzuola. Non doveva toccarmi, qualcosa mi diceva che se l'avesse fatto avrei ceduto a qualsiasi sua richiesta; lo sguardo confuso che mi rivolse fu peggio di uno schiaffo, ma ormai il vaso era stato aperto.
«Tu non puoi venire qui e fingere che tutto vada bene. Non puoi guardarmi, avvicinarti, e fingere di non avermi lasciato con poche righe inspiegabili, di non avermi abbandonato quando avevo più bisogno di te, quando ero più vulnerabile, quando ero a pezzi e avevo bisogno che qualcuno mi raccogliesse. E quel qualcuno non sei stato tu, Bucky. Né tu, né nessun altro del gruppo. E non m'interessa il perché, il come e il quando, semplicemente non puoi.» sputai fuori, con una calma e una compostezza di cui non sapevo d'esser capace. Era la pura e semplice verità, e lui lo sapeva. Non una lacrima solcò il mio viso, non una volta la mia voce s'incrinò mentre esponevo i miei sentimenti, le mie sensazioni, le mie ferite.
Si allontanò di un passo, poi un altro, e solo quando fu abbastanza lontano alzò di nuovo lo sguardo su di me, uno sguardo scuro, profondo, ferito com'era stato il mio quella mattina di un anno e mezzo prima.
«E chi ti ha raccolto, il Re?» domandò, e io gelai per il tono tagliente. «È per questo che non mi hai permesso di vederti? Che non mi hai voluto vedere? Che sono dovuto restare in quel corridoio, ad attendere e attendere briciole di informazioni che non sono mai arrivate? Che tu ti decidessi finalmente a incontrarmi, per parlare come due persone civili?» continuò, ma io non avevo intenzione di rispondere, né di stare ad ascoltarlo. «È per questo che mi sono dovuto intrufolare qui, nel pieno della notte, con la speranza che tu fossi sveglia?» continuò, ma mi costrinsi ad ignorarlo. Mentiva, era stato lui a non venire, io non avevo dato alcun ordine e non avevo chiesto di lui perché non era venuto.
Mente. Mente. Mente. Me lo ripetevo come un mantra. Ero io la parte lesa. Scivolai di nuovo giù dal letto, dandogli le spalle, e presi un profondo respiro. Sono io quella ferita. Io.
«Fuori.» dissi, stringendo le lenzuola tra le dita per soffocare la rabbia che mi sentivo crescere dentro; era come una diga pronta ad esplodere, e lui non sembrò vedere il pericolo.
«Fai già la regina?» chiese, con un tono geloso e furioso che mi accecò; la rabbia esplose e quando mi voltai verso di lui, il cuore a mille e il respiro corto, quasi non lo vedevo.
«Mi sono raccolta da sola!» gridai, anche se non gli dovevo spiegazioni. «Mi sono raccolta quando tu e il resto del gruppo mi avete abbandonata. E lo so che l'avete fatto per proteggermi, non fate che ripeterlo, ma non vi ho chiesto nulla. Avete deciso alle mie spalle, senza interpellarmi, senza spiegarmi perché l'uomo che amavo, dopo una notte passata l'uno nelle braccia dell'altra, il mattino dopo era scomparso lasciando dietro di sé solo un misero biglietto ambiguo. Senza spiegarmi perché quelle che ritenevo le mie migliori amiche hanno smesso di rispondere alle mie chiamate. Senza dirmi che mio fratello era fuggito, che rischiavo la reclusione a vita, che ero in pericolo. Mi avete lasciata qui, tu mi hai lasciata qui, in una terra straniera, con la mente straziata, e io mi sono raccolta Bucky. Io, non T'Challa, e lui non c'entra niente in questa storia. Io non ti permetto, né ora né mai, di mettere bocca su questo, non dopo quello che hai fatto.» vomitai, la voce che calava ad ogni parola, il cuore che di rimando accelerava sempre di più. «E sei tu, soltanto tu, che non sei venuto a trovarmi dopo la missione. Sono quasi morta e tu non sei venuto.» conclusi, il respiro affannato, gli occhi strabuzzati. Poi me ne resi conto. Non sapevo come, né quando, ma avevo lasciato il letto e mi ero così allontanata, lasciando l'asta dietro di me, che il filo era teso, ma ero in piedi: le gambe tremanti, i piedi nudi a contatto col pavimento freddo, l'equilibrio precario. Ci fissammo per qualche secondo, lui incredulo, io esausta, poi le gambe mi cedettero. Mi sembrò di vedermi dall'esterno, mentre cadevo e affannavo per un appiglio, poi Bucky mi afferrò: aveva azzerato la distanza che ci separava e mi teneva per le braccia. Incontrai il suo sguardo velato dalla preoccupazione e da qualcosa che non riuscii a decifrare, scorsi quella scintilla che avevo già visto prima di perdere i sensi, la stessa che avevo imparato a riconoscere nel tempo passato insieme, la stessa che vedevo nei miei ogni mattina, e mi venne l'istinto di districarmi dalla presa ferrea sulle mie braccia, conscia che, se vi fossi rimasta ancora a lungo, mi sarei distrutta; a fermarmi fu solo la consapevolezza che le mie gambe non avrebbero retto da sole. «È stato il tuo T'Challa, ed è l'ultima volta che accennerò a lui, a dirmi di non avvicinarmi a te, a meno che non fossi stata tu a chiedere della mia presenza. È per questo che non sono venuto, non perché non m'interessasse, ma perché mi è stato proibito, perché a te non interessava vedermi. Ed è per questo che sono rimasto ad aspettare, e aspettare, che tu mi tendessi la mano in nome di quello che c'è stato, che mi lasciassi spiegare. È per questo che sono qui, perché vederti crollare su quella neve mi ha terrorizzato, perché non sapere nulla mi ha torturato lentamente, e questo sei stata tu a farlo.» sussurrò, e io mi maledissi per non averci pensato. Non biasimavo T'Challa per avergli proibito di vedermi, capivo il suo punto di vista, ma non condividevo le sue decisioni; aveva agito alle mie spalle, e questo non lo rendeva diverso dagli altri, diverso da Bucky stesso. Restammo a fissarci, nel silenzio tombale del Laboratorio, in quella posizione precaria, le parole dette a gravare tra noi, ad allontanarci ancora di più, rafforzate dal rancore, dalla rabbia, dai sentimenti inespressi e soffocati.
«C'è solo una differenza, tra noi.» mormorai, dopo un tempo che parve infinito. Arretrai e lui seguì i miei passi, finché non fu sicuro che ero abbastanza vicina al letto da essere lasciata andare. «Tu sapevi quello che stavi facendo, io ero completamente ignara delle disposizioni di T'Challa e, ferita, ho deciso di non chiedere di te, perché pensavo che tu non volessi vedermi.» continuai, facendo spallucce. I suoi occhi s'illuminarono di una cocente consapevolezza, che si trasformò in rammarico e dannazione verso se stesso; si rammaricava di non aver capito la situazione, e si dannava perché, per una volta, aveva seguito le "regole" e quelle gli si erano rivoltate contro. Mi stupii di quanto, nonostante tutto il tempo trascorso lontani, fosse ancora così facile per me leggerlo, sentirlo, comprenderlo. Libera dalla sua presa, mi lasciai cadere sul letto, un sospiro di sollievo incastrato in gola. Sospirai. «Non abbiamo più nulla da dirci.» mormorai, scuotendo leggermente il capo.
Lui continuò a fissarmi con sguardo soppesante, le braccia incrociate al petto, le gambe leggermente divaricate per sostenere la stazza fisica, poi, quando sembrò essere arrivato ad una conclusione che lo soddisfaceva, tirò un lungo sospiro incomprensibile. «Penso di si.» ribatté. Alle sue spalle le porte del laboratorio si aprirono, lasciando entrare Shuri. La principessa si fermò per soppesarci un attimo, sospesa a metà di un passo, poi continuò la sua avanzata verso di noi, con una naturalezza forzata.
Si fermò al mio fianco ed alzò lo sguardo su Bucky, piegando leggermente il capo di lato, lo sguardo serio come poche volte. «Devo cambiare la medicazione.» disse, in un poco velato invito ad andarsene. Bucky le sorrise senza divertimento, poi mi lanciò un veloce sguardo e arretrò di un passo, un altro ancora, poi ci diede le spalle e se ne andò, lasciando le porte cigolare dietro di sé. Shuri si chinò su di me, sollevò la maglietta quel tanto che bastava per arrivare alla medicazione e poi sollevò lo sguardo sul mio viso per incontrare il mio.
«Stai bene?» domandò, con un sopracciglio inarcato. Stavo bene? Era una domanda rischiosa, con una risposta che lo era altrettanto. Che cosa avrei dovuto dirle? Che il cuore mi faceva male? Che il magone alla gola mi impediva di respirare? Che una parte di me, più grande di quanto volessi accettare, sperava che Bucky tornasse immediatamente? Che l'altra era arrabbiata con suo fratello, perché mi aveva impedito di vederlo, perché gli aveva impedito di assistermi, di starmi vicino, perché aveva deciso al posto mio, per il mio bene e per suo egoismo. Non potevo dirle questo, lei era pur sempre Shuri, la sorella del Re, di T'Challa, e non avrebbe capito, non avrebbe potuto in nessun caso. Perciò misi su un mezzo sorriso.
«Si.» mentii «Sto bene.» aggiunsi.
Non tornammo sull'argomento.






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─author's space:

Lo so, non ho scuse. 
E' passato tantissimo tempo dall'ultimo aggiornamento, ma il blocco dello scrittore è un mostro che mi accompagna da troppo tempo ormai, e questo capitolo ne è la dimostrazione.
Non ne sono soddisfatta, principalmente perché pensavo di poter dare di più, in più è anche terribilmente piccolo, ma è anche un capitolo di transizione importante, il primo vero incontro tra Beth e Bucky. C'è una prima visione delle cose, ma non ci dimentichiamo di Vektor, perno principale della storia. Spero che in qualche modo questo capitolo non vi deluda, ma ovviamente aspetto i vostri pensieri per un confronto. 
Mi dispiace davvero davvero tanto, ma non so quando potrò pubblicare di nuovo.
Vi voglio bene, 
davvero,
lily♥




Survivor. |Bucky Barnes Fanfiction.Onde histórias criam vida. Descubra agora