capitolo 34

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[fuori campo ]

Clarke Griffin vide il corpo della ragazza cadere al suolo provocando un tonfo sordo attutito solamente dalle foglie secche che ricoprivano il vasto prato davanti a loro, dopo un istante di esitazione un colpo di cannone perforò il silenzio che si era creato nella radura.
Un urlo e tante lacrime, la ragazza bionda stava soffrendo come mai in vita sua, anche se era stata avvelenata e le avevano quasi reciso la gola il dolore emotivo superava quello fisico.
Non poteva credere che fosse successo, che la persona di cui si era innamorata fosse stesa senza vita proprio difronte a lei mentre cercava di salvarla.
Un paracadute fece il suo teatrale ingresso ma se solitamente veniva accolto con grida di gioia e esclamazioni di stupore questa volta il freddo sospiro del vento fu l'unico benvenuto che gli venne dato.
Alla ragazza non importava dell'antidoto al veleno, l'unica cosa che le interessava era poter sentire ancora la sua voce, vedere di nuovo il suo sorriso e sentirla ridere come solo lei sapeva fare, arricciando leggermente le labbra senza essere mai troppo eccessiva e guardandola con quegli occhi con cui avrebbe saputo far innamorare persino un ceco.
Fu proprio quando Clarke la vide stesa al suolo con le mani giunte sulla ferita presente nell'addome che si ricordò di ogni cosa.
Ogni singola cosa.
Con i ricordi però tornò anche il dolore.
Tantissimo dolore.
E le sembrò di perderla ancora.
La prima volta un colpo di pistola non le aveva lasciato possibilità, la ragazza bionda se lo ricordava bene, quando Lexa aveva chiuso gli occhi dopo averle sussurrato " Forse ci incontreremo di nuovo " non credeva che sarebbe successo davvero.
Dopo tutto quello che Clarke aveva passato, dopo tutto quel dolore, perché si, dalla morte di Lexa non c'era stato un solo momento felice, dopo tutto quel buio lei era tornata.
Come? Perché? In che modo? Grazie a chi?
Le domande erano centinaia e le affollavano la mente ma vennero scacciate subito, ogni cosa che non riguardasse la ragazza adesso passava in secondo piano.
Clarke si inginocchiò sopra il suo corpo e le accarezzò una guancia con una mano, l'aveva già toccata, in un'altra vita e anche in questa, poche ore prima, ma adesso che aveva la consapevolezza di ciò che erano state quel tocco era diverso, era più dolce e allo stesso tempo più adrenalinico, era gentile ma curioso, era...era tutto ciò che voleva dirle da anni ma non aveva più potuto fare.
E quel bacio che le diede poi mischiato tra le lacrime e il sangue sapeva di tutti i "ti amo" che non si erano mai dette, che avevano rimandato scoprendo poi che non ci sarebbe stato nessun futuro per poterli rimandare.
In realtà Lexa le aveva rivolto quelle parole, una sul tetto guardando le stelle e l'altra nella grotta quando dormivano abbracciate, ma lei altre migliaia e migliaia di volte gliele aveva sussurrate senza aprire bocca, gliele aveva urlate con gli occhi, gliele aveva scandite tramite un sorriso che forse lei era troppo ingenua per decifrare.
Ma gli ultimi "ti amo" detti in quest'altro mondo...erano suoi? Erano veri? Lei era davvero lei?
A Clarke girava la testa, non sapeva se si trattasse del veleno oppure delle centinaia di domande che non avevano risposta ma si sentiva stanca.
< Non chiudere gli occhi Clarke > sussurrò a sè stessa, buffo, era convinta che se si fosse stesa a terra abbandonandosi alla stanchezza si sarebbe addormentata per poi risvegliarsi più tardi dal sogno che stava facendo, un sogno che comprendeva Lexa, e certamente non voleva perdersene neanche un momento.
Già, non credeva si trattasse della realtà, com'era possibile d'altronde che si fosse ritrovata in un altro universo, in un mondo diverso, in una vita diversa e soprattutto che la persona che più aveva amato ma che l'aveva lasciata anni prima fosse lì con lei?
Così per continuare il sogno Clarke si sforzò a tenere gli occhi aperti e contemplò il viso davanti a lei, se era tutto un sogno però perché Lexa stava morendo un'altra volta tra le sue braccia senza che lei potesse fare nulla? Non poteva permetterlo, che fosse finto o che fosse vero doveva fare qualcosa, così agì.
Appoggio l'orecchio sulle labbra di Lexa, quella bocca che tanto aveva sognato la notte e desiderato sulla sua, che le tormentava i pensieri e la faceva ubriacare in un'aspirale di desolazione quando non era vicina, adesso era a pochi millimetri da lei e...respirava. A fatica ma respirava.
Clarke barcollava, sembrava brilla a giudicare dal modo in cui si muoveva ma questo non le impedì di concentrarsi per rimuovere la spada dalla ferita.
Anni e anni di esperienza avevano fatto si che sapesse perfettamente come cavarsela in queste situazioni disperate, facendo leva sul torace della ragazza infatti evitò una possibile emorragia, poi dopo aver disinfettato la ferita, cucito le estremità con ago e filo sterilizzati trovati nel loro kit e ricoperto con delle garze si sdraiò al suolo esausta.
L'aveva salvata? Questa volta ci aveva provato e non poteva essere troppo tardi, non di nuovo.
Non vedeva più nulla, solo una distesa di bianco, nient'altro.
Sentiva la morte avvicinarsi ma adesso era la prima volta in tutta la sua vita dopo che Lexa se ne era andata in cui voleva vivere, così lottò un'altra volta contro la stanchezza e il dolore estenuante che le perforava l'addome, a tentoni iniziò a tastare il terreno.
L'erba umida le bagnò le mani che si ritrovarono in fretta congelate, fu dopo un paio di minuti che nel silenzio più totale trovo ciò che stava cercando: il paracadute.
Tentò di svitare il tappo sempre alla ceca e ciò richiese più del triplo del tempo che ci avrebbe messo in condizioni normali, le sue braccia erano deboli e la sua bocca estremamente secca.
Quando si trovò fra le mani lo apri quello che pareva essere un flacone di pillole e ne ingurgitò un paio, faticò molto a inghiottirle a causa della gola secca e arida, ma quando ci riuscì si sentì estremamente meglio.
La vista tornò piano piano e ogni secondo che passava riprendeva l'uso di qualche arto, si meravigliò di quanta tecnologia avanzata disponesse capitol city e si indignò pensando che nonostante fossero così avanzati non condividevano nulla con i distretti, con la sua casa.
Poi rise, era un miscuglio di emozioni contrastanti quella ragazza, rise di gusto perché in realtà quella non era la sua casa, non lo era mai stata, lei era nata in una navicella spaziale e poi aveva vissuto sulla terra, ma una terra estremamente diversamente da quella in cui risiedeva ora.
Probabilmente non era neanche la stessa.
Eppure si trovava lì adesso a combattere per la stessa ragazza che anche nell'altra dimensione l'amava, forse era solo uno stupido sogno ma anche se fosse Lexa non si meritava di morire. Non di nuovo.
Mentre guardava la mora stesa a terra capì cos'era quel senso di familiarità che tanto l'aveva accompagnata nelle ultime settimane, cos'erano tutti quei ricordi, quelle scene già viste, quelle sensazioni stupende che però era sicura di aver già provato da qualche parte, ma non capiva come tutto ciò fosse possibile.
Ora era quasi certa che fosse la realtà quella davanti a lei, la pura realtà ma ancora non si spiegava come potesse essere accaduto, era assurdo anche per lei che nel corso della sua vita aveva imparato a smettere di stupirsi.
Poi ricordatasi solo ora del motivo per cui Lexa giaceva a terra sanguinante Clarke si voltò e vide Janus, il suo volto pallido con gli occhi fuori dalle orbite e il suo sorriso malefico risplendevano alla luce della luna.
Il colpo di cannone che aveva sentito prima era sicuramente per lui, era morto, finalmente era morto e Lexa era al sicuro, o almeno, più al sicuro di prima.





16 novembre 2020

THE HUNGER GAMES- ClexaDove le storie prendono vita. Scoprilo ora