Capitolo 1

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30 settembre;

Quando apro gli occhi la mia vista è offuscata. È come se avessi una mano estranea che mi stringe forte la bocca dello stomaco. I miei occhi si inumidiscono, stringo forte il labbro tra i denti. Non devono vedermi piangere. Non devono vedermi vulnerabile.

Provo a pensare a qualcos'altro; mi fermo al semaforo e aspetto. Spero che si illumini di verde il più tardi possibile.

Verde.

Riparto lentamente, senza la minima voglia di oltrepassare il confine della città. Una macchina mi sorpassa e il conducente mi urla contro. Alzo il finestrino e riprendo a concentrarmi sulla guida. Dalmwin è, come sempre, deserta. Le strade semivuote sono decorate da alberi ormai spogli. Passo davanti al parco che ha ospitato la mia infanzia e la mia adolescenza. Ormai è totalmente trascurato e dimenticato da tutti. Dalmwin è tra le più piccole del Regno Unito: una città riservata e vecchia, raramente si vedono passeggiare ragazzini o bambini se non ci si sposta verso il centro. Sono immersa tra i pensieri e neanche mi accorgo di essere arrivata davanti casa. Fermo la mia macchina a pochi metri da essa. Prendo un respiro profondo, mi manca l'aria e sento ancora una volta il magone salire. Prendo il cellulare dal cruscotto e sfilo le chiavi uscendo dalla vettura. Poi mi assicuro di averla chiusa e mi fermo ancora per prendere un forte respiro. Sono costretta a strisciare i piedi fino all'abitazione e a ripetere a me stessa di non soffermarmi troppo su quello che mi diranno o mi verrà chiesto. La mia mano trema quando spingo il dito sul campanello, infatti erroneamente busso due volte. Poco dopo la figura snella e sorridente di mia madre spunta davanti all'entrata.

«Bentornata, Oralee.»

«Ciao, mamma.»

Mia madre mi sorride e si scosta invitandomi ad entrare. La casa è sempre la stessa, minimalista con qualche foto di famiglia sparsa qua e là.

«Tuo padre è a lavoro, dovrebbe tornare per cena», mi informa andando in cucina.

La seguo lentamente guardandola infilarsi il grembiule da cucina. Sta preparando il pranzo e, con fare indaffarato, inizia a controllare il cibo nelle varie pentole. La guardo, in silenzio, spostando poi lo sguardo intorno a me. È così strano tornare in questa casa, l'ultima volta che ci sono stata non è andata a finire bene.

«Keith è di sopra, oggi pomeriggio va a ritirare il vestito.»

Annuisco semplicemente ed esco dalla cucina per raggiungere mia sorella. Mentre salgo le scale, la sento parlare al cellulare. Probabilmente è Connor, il suo ragazzo. Quando arrivo davanti alla sua camera, lei è voltata di spalle davanti all'armadio. Probabilmente si sente osservata perché, d'istinto, si volta veloce verso di me.

«Connor, ti richiamo.»

Quando attacca si fionda su di me. Mi stringe a sé sussurrandomi quanto le sia mancata. La abbraccio, ferma, e aspetto che si allontani.

«Sei arrivata ora?», chiede ed io annuisco. «Ti hanno tagliato la lingua?»

«No», rispondo sorridendo leggermente alla sua risata.

Lei mi abbraccia ancora e mi racconta come stanno procedendo i preparativi. Mi dice che non vede l'ora che sia l'indomani, che è in ansia e che è impaziente di mostrarmi il vestito delle damigelle.

«Tu che mi dici?», mi chiede sistemando dei vestiti nella valigia.

Non rispondo e faccio un passo indietro pronta ad uscire dalla stanza. Lei sospira e mi guarda comprensiva. Ma in realtà non capisce, nessuno mai potrebbe capirmi.

«Starai meglio, il tempo curerà le tue ferite», dice mettendo le mani sulle mie spalle. Io annuisco e mi allontano.

«Vado ad aiutare mamma.»

Scendo velocemente le scale e mi tolgo il cappotto. In casa si sta bene e, per mia fortuna, il riscaldamento è acceso. Quando ero a St David's mi hanno tolto per un mese intero il gas perché non riuscivo a pagare l'affitto. Quindi posso dire che tornare in questa casa non è stata del tutto una cattiva idea.

«Ti serve una mano?», chiedo a mia madre.

«No, tranquilla. Sarai sicuramente stanca, vai a rilassarti in salotto.»

Faccio scorrere i canali poco interessata. In realtà, fosse stato per me, sarei andata in giro lontana da loro. Ma il tempo ha deciso di scherzare e presto la pioggia ha iniziato a battere contro le vetrate. A pranzo non parliamo molto: Keith in pratica è stata attaccata tutto il tempo al cellulare con la wedding planner e mia madre ha preferito non chiedermi nulla. Mi va bene così, non avrei saputo come e cosa risponderle.

Quando apro la porta della mia camera noto che ogni cosa è rimasta esattamente dov'era quando l'ho lasciata. Mi chiudo la porta alle spalle e mi avvicino al letto sedendomi. Prendo un respiro profondo e mi tolgo le scarpe. I poster sulle pareti hanno perso quel fascino che la Oralee diciassettenne vedeva. Ricordo di aver vissuto, in quel periodo, una fase di ribellione. Ovviamente una ribellione apparente: non avrei mai avuto il coraggio di oltrepassare il limite e sfidare i miei genitori.

Mi sdraio poggiando la testa sul cuscino, portando inevitabilmente lo sguardo al soffitto. Quando ero piccola vi attaccai delle stelline fluorescenti illudendomi, ogni notte, di essere sdraiata in giardino a guardare quelle vere. Proprio come nei film o nei libri di John Green. Tutto era più semplice quando riuscivo a divertirmi con la sola immaginazione.

Ora neanche più quella mi resta. 

Golden -Where stories live. Discover now