28; Somewhere only we know

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La spiaggia dove mi sono sempre rifugiata da quando ho passato quell'anno a Bologna, mi accoglie come sempre incazzata nera.
Il mare è scuro, le onde battono alte sul bagnasciuga e se ne tornano indietro veloci.
La cena a casa di Nelson è finita fin troppo tardi, e quando ho chiamato Cesare per farmi accompagnare qui, aveva la voce roca di chi si è addormentato da poco ed è stato svegliato bruscamente.
Camminiamo entrambi sul lungomare, battendo i piedi su un percorso che conosciamo ormai come se fossero le linee della nostra mano, quelle che ti diverti ad analizzare quando sei bambino per scoprire quanto a lungo vivrai.
Dal quel dodici febbraio, in cui sono sparita senza lasciare tracce, ogni anno sono tornata qui con lui.
Ogni anno, anche quando ci siamo trattati da sconosciuti, anche quando sono stata insieme a Marco.
Sapevo che c'era, perché nel tragitto che facevo ogni volta, incontravo la sua moto.
Con un sorriso, mi tolgo via le scarpe e corro verso la spiaggia a piedi nudi, rendendomi conto che forse è la prima volta che mi concedo di sorridere durante questo giorno da quando è morto mio zio.
Sento Cesare seguirmi confuso, mentre improvviso questa corsetta folle, ridendo con le lacrime che mi scorrono sulle guance.
Mi lascio cadere a terra qualche metro dopo, seguita ovviamente dalla presenza silenziosa del riccio, che non mi ha mai abbandonata da quando ci siamo conosciuti quel giorno sulle scale.
Inspiro l'aria intrisa di salsedine e mi sento finalmente completa, come mai mi sono sentita prima d'ora.
Mi mancavano cose così semplici, cose come starsene seduti attorno a un tavolo a mangiare cibo cinese da asporto, o fare una passeggiata al mare senza pretese.
Guardando l'orologio mi rendo conto che da quel fatidico dodici febbraio, sono passati ventun anni.
Quest'anno compio trent'anni e mi sono resa conto soltanto adesso che sto invecchiando, che ho bisogno di un posto sicuro dove stare, di una persona sicura da cui tornare sempre.
«Sono stanca» dico all'improvviso, accompagnando le mie parole con un sospiro.
«Vuoi tornare a casa?» chiede Cesare premurosamente, lanciandomi uno sguardo.
«Di girare, intendo – lo vedo abbracciarsi le ginocchia — di scappare sempre, costantemente» borbotto, «Ho bisogno di un posto in cui fermarmi, di qualcuno da cui tornare».
Annuisce e concorda con me.
«Mi fai venire in mente i Keane, se parli così» la butta sullo scherzo, e credo che non rivelerò mai che nella testa mi è balenata proprio quella canzone.
Cominciamo a parlare di tutto quello che ci è accaduto in questi anni in cui siamo stati lontani, mi racconta di come ha cambiato casa almeno cinque volte, del progetto Space Valley, che li ha portati ad avere il loro talk show su Netflix. Mi racconta delle giornate di riprese, di come sia molto meno stressante il fatto che ci sia qualcuno che ti sistemi tutto, ma di come gli manchi fare tutte quelle piccole cose di backstage. Mi racconta dell'addio di Dario, che non è mai stato del tutto un addio, perché ha continuato a dare una mano nonostante i suoi impegni col podcast e con la scrittura.
Mi racconta di come bussava a Denia almeno una volta a settimana per dormire nella mia stanza, a quei tempi ancora intatta ed immacolata, per sentire di meno la mia mancanza, che all'inizio del mio anno ad Amsterdam è stata lacerante per lui.
Io gli racconto quanto devastante è stata la mia laurea all'estero dopo esserci lasciati in quel modo, dei chili che ho perso per lo stress, di come durante le riprese con la HBO mi sia sentita persa, immersa in un mondo più grande di me. Gli ho raccontato come ho stretto i denti, continuando a ripetermi e a farmi ripetere dalla mia famiglia, quanto fosse l'occasione della mia vita. Gli confermo che lo è stata, di come poi mi abbiano richiamata per girare la terza stagione de L'Amica Geniale e del contratto che avevo da poco firmato per prendere parte alle riprese della quarta.
«Come mai ti ha lasciato?» chiedo dopo un po' a bruciapelo, riferendomi all'unica ragazza con cui è stato dopo di me.
«Si è accorta che doveva dividere gli spazi con una terza persona», fa spallucce. «Ha capito che non l'avrei mai amata come merita davvero, ma siamo rimasti comunque ottimi amici».
Annuisco e mi accendo una sigaretta, perdendomi a guardare il primo accenno di alba all'orizzonte.
«E Marco?» chiede dopo un po'.
Arriccio le labbra in un sorriso, ricordando quel breve anno in cui siamo stati assieme.
«Non poteva funzionare, entrambi giravamo troppo e non ci amavamo abbastanza» lo guardo negli occhi intensamente, perdendomi nel suo sguardo come le prime volte in cui passavamo del tempo assieme.
«E Claudio?» borbotta, guardando altrove.
Mi viene da ridere, perché entrambi sappiamo che Claudio è stato la scusa per lasciarsi.
«Con gli anni ho ripreso coscienza dei miei ricordi» sorrido, riportando lo sguardo verso l'alba. «Ho capito che ero nuda perché stavo facendo le prove per uno spogliarello da fare a te una volta che saresti tornato ad Amsterdam».
«Non ci credo» scuote la testa, ma sorride.
«Credici invece!» alzo di poco la voce. «Questo spiega anche perché Claudio fosse totalmente vestito; in quel momento eravamo troppo nel panico per notare che avesse addirittura la giacca addosso».
Adesso ride, tenendosi la pancia.
So che non ce l'ha più con noi per quella storia, lo so perché poco tempo dopo, Claudio venne a trovarmi di nuovo e mi rivelò che avevano parlato e se le erano date di santa ragione, concludendo il tutto con un abbraccio stretto e qualche lacrima.
Ci perdiamo poi a ricordare tutte le cose che abbiamo vissuto insieme e mi racconta di come Nicolas abbia fatto un video durante tutto l'anno in cui abbiamo vissuto gomito a gomito, con una macchina analogica.
Sorrido e promette di mostrarmelo una volta a casa.
«Ah, Sofia si è sposata e ha una figlia» afferma, mentre ricordavamo una delle prime serate passate insieme nel pub in cui lavoravo.
«Davvero? Sono contenta per lei, se lo merita» annuisco, con un sorriso.
«Troverai ironico il nome della bambina» mi guarda, con uno sguardo furbo che mi fa pensare all'impensabile.
Lo incito a rivelarmi il nome della bambina e fa un po' il sostenuto.
«Si chiama Margherita» rivela alla fine, gustandosi la mia reazione stupefatta. «E io sono il suo padrino».
«Voglio conoscerla» dico, ancora incredula.
Mi spiega che vivono a Milano, per il lavoro del marito di Sofia, ma che tornano ogni tanto durante i weekend per far passare del tempo con Cesare alla bambina.
Poi mi chiede dei miei fratelli e io sorrido a pensare a loro.
Manuel ed Amelie hanno tre figli. Il primo, quello che teneva in pancia quando io e Cesare stavamo assieme, si chiama Louis, poi sono nate altre due bambine, Danielle e Noe. Gli racconto di come Noe sia identica a me da bambina, delle bravate di Louis e del carattere mite di Danielle.
Poi gli racconto della vita da single di Martha, che a quarant'anni se ne sente ancora venti. Poi gli racconto del matrimonio di Marco e Ginevra e di Pervinca, la loro bellissima bambina nata prima del matrimonio. Gli racconto di Michele e Melissa, che si sono sposati un paio d'anni fa e girano il mondo grazie al lavoro di lei, che fa l'antropologa e di come lui ha deciso di darsi a fare il giornalista, per riuscire a starle dietro.
Poi parlo delle gemelle, che hanno aperto una farmacia a Napoli, una fa la farmacista e l'altra crea cosmetici. Di come anche volendolo con tutto il cuore, non siano riuscite a separarsi.
«E i tuoi?» mi chiede, dopo qualche istante di silenzio.
«Si godono la vita da pensionati e quando Gin e Marco sono via per lavoro si divertono a fare i nonni con Pervinca» sorrido, pensando ai miei genitori.
«E tu?» trova il coraggio di chiedere.
«Io ho aspettato il 2027» lo guardo, con gli occhi lucidi. «Ogni giorno, ogni mese e ogni anno».
Mi prende la mano, facendo scivolare piano le dita tra le mie e mi tira a sé, lasciandomi un bacio tra i capelli.
Continuiamo a parlare di tutto e di niente, anche quando rientriamo a casa sua e ci lanciamo sul letto per cercare di dormire. Ma niente, non riusciamo a smettere di raccontarci e di parlare, come quando eravamo più piccoli e ci bastava un divano e la presenza dell'altro per stare in pace col mondo.
Ora che ci penso, mentre lo guardo raccontare un aneddoto divertente riguardo la vecchia casa di Nelson – che ora ha comprato lui — anche adesso mi basta questo letto e la sua presenza, per essere felice.
«E i tuoi tatuaggi?» mi chiede dopo un po', mentre mi chiede se mio fratello Marco fa ancora il tatuatore.
«Ti va di contarli?» gli chiedo, prima di fiondarmi addosso alle sue labbra, pensando di aver aspettato anche troppo tempo per ricongiungermi a quella che è – e adesso ne sono più certa che mai– la mia anima gemella.


È la fine?
Non lo so.
Vi rispondo così, perché è un periodo in cui non so nulla.
È un periodo strano, confuso, fatto di nuovi inizi e vecchie abitudini.
Vi rispondo che non lo so, perché mi sono affezionata così tanto a Margherita, da non riuscire a scrivere un personaggio diverso da lei.
Perciò ve la butto così: lascio la storia incompleta, ma voi tenetevela in biblioteca, non sia mai che un giorno arrivi all'improvviso una mia notifica.
Perché mi sento che è davvero la fine, ma poi penso a degli aneddoti da raccontare, magari anche dal punto di vista dei personaggi secondari.
Del tipo: che fine ha fatto Cecilia? Ma Azzurra e Tonno stanno ancora insieme? E Dario? Frank? Nicolas? Che fine fanno tutti loro nella mia immaginazione?
Qualcosa in mente ce l'ho, aspettatevi mie notizie.
Nel frattempo, ci tenevo a ringraziare qualsiasi persona abbia speso del tempo a leggere questa piccola follia.
Vi ringrazio, perché senza feedback, questa storia avrebbe visto la sua fine ancor prima di cominciare.
Ringrazio tutte le persone che mi lasciano dei commenti e si complimentano con me per come scrivo, grazie davvero, mi scaldano il cuore.
Ringrazio anche chi, preso dalle emozioni, ha commentato di getto e se l'è presa per le scelte sbagliate dei personaggi.
Ringrazio anche chi ha votato, grazie davvero.
Nessun addio, bensì un arrivederci.
Vi mando un bacio enorme, arriverenze🌻

Margherita | Cesare CantelliWhere stories live. Discover now