6; 12 Febbraio

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Guardo la distesa infinita color grigio-azzurro. La pioggia batte incessante da ore e io me ne sto qui.
Magari si confonde con le lacrime.
È di nuovo il 12 febbraio e come ogni anno dall'incidente, piove.
Piove sempre e il mare sta sempre incazzato.
Come me, d'altronde.
Me lo ricordo, quell'anno.
Avevo 9 anni e mio zio faceva parte dell'esercito, era un pilota ed ogni volta che lo mandavano in missione, tutti mi raccontavano una bella storiella.
Era il fratello di mia madre ed avevamo un rapporto di simbiosi meraviglioso.
Venne mandato in Afghanistan quell'anno.
Partì, e non tornò più.
Non era sposato, quindi ricordo ancora come fosse ieri il giorno in cui un Capitano bussò alla nostra porta.
Rabbrividisco, ricordando come mio fratello mi raccolse da terra dopo che mia mamma mi raccontò di come il mare s'era portato via suo fratello.
Da allora ogni 12 febbraio sparisco via e vado ad urlare contro il mare.
Non ho mai voluto sapere come fosse morto, mi bastò soltanto quel "l'ha portato via il mare" detto singhiozzato.
Ho smesso di andare al cimitero dopo tre mesi dal suo funerale e i miei non ne parlano mai in mia presenza.
Sento il cellulare vibrare nella tasca del cappotto, ma non lo tiro fuori.
Che tutti impazziscano a cercarmi.
I miei genitori e i miei fratelli ormai ci hanno fatto il callo e lo sanno, le mie migliori amiche anche. A Doc e Sandra l'ha raccontato mio padre più dettagliatamente la sera di Santo Stefano, non me l'hanno detto, ma lo vedo sempre quando la gente viene a sapere questa storia.
Cambiano sguardo, iniziano a trattarmi come se fossi un calice di cristallo pieno di crepe.
«Perché te lo sei preso, eh?» inizio ad urlare contro il mare. «Perché ogni anno te ne stai ancora qua, incazzato nero? Sono io quella che ha il diritto di essere incazzata, non tu!»
Un singhiozzo mi scuote la gola e finisco a vomitare il nulla che ho mangiato su un angolo del marciapiede.
Mi sono sempre sentita sola, dopo l'incidente.
Quando il destino ti strappa via una persona troppo importante, ti ritrovi a vagare come un'anima in pena, alla ricerca del pezzo mancante che s'è portato via quello stronzo del destino.
C'è chi poi ritrova la metà mancante in qualcun'altro.
Io invece, ho sempre avvertito questa solitudine avvolgermi come una coperta.
Non l'ho più trovata, la metà mancante.
Impossibile sentirsi soli con sei fratelli, direte.
La solitudine però è sempre lì, e da quando mi sono trasferita a Bologna, mi puntella come fosse una bambina fastidiosa.
All'ennesimo squillo del telefono, mi decido a rispondere.
«Che cazzo c'è?» rispondo irata.
«Dove cazzo sei?» la voce di Cesare è tre volte più incazzata della mia.
«Non ti interessa.» sibilo.
Riattacco prima che possa rispondere e spengo il telefono.
La reazione che ho, in questo giorno, è sempre quella di una persona che ha più diritto di essere incazzata. Chiunque provi a venirmi incontro, viene preso, masticato e sputato via con odio.
Resto lì fino alle 19, e riprendo l'autobus sotto lo sguardo stranito del conducente.
A mente lucida penso che non ha tutti i torti: una 22enne che va in giro senza ombrello, con la faccia rossa, le labbra aride e la puzza di pioggia e salsedine cucita addosso come una seconda pelle deve essere una visione non molto rosea.
Mi faccio due ore di autobus in assoluto silenzio, senza preoccuparmi del mondo fuori e arrivo alla stazione di Bologna tremante, scossa continuamente da giramenti di testa.
Decido di non prendere l'autobus e di tornare a casa a piedi.
Non appena scorgo le volanti della polizia sotto il condominio, impreco tra i denti.
Frank, Dario e Tonno, stanno parlando con tre agenti.
Dietro di loro, Nelson tiene tra le braccia una Bea sconvolta, col volto rigato dalle lacrime. Cecilia dietro di lei, è abbracciata a Denia e Nicolas sta accanto a loro a fissare il vuoto.
Cesare invece è seduto a terra, ha tra le mani un pacchetto delle mie Marlboro.
Mi avvicino strisciando i piedi, sono stanchissima.
«Me ne dai una?» chiedo con un filo di voce, che lo fa scattare come una molla.
Si mette in piedi e mi guarda sconvolto, prima di stringermi in un abbraccio che mi toglie il fiato.
«Sei una cogliona.» dice soltanto, prima di fare un cenno agli altri.
La prima che mi viene incontro è Cecilia che non esita a mollarmi un ceffone in pieno viso che mi fa girare la testa ancor di più. Barcollo ma vengo retta dalle braccia di Cesare.
«Anche meno, Ceci.» borbotto. Anche nel torto più totale, non posso fare a meno di essere sarcastica.
Mi scuso con tutti, dal primo all'ultimo e Nelson chiama anche Riccardo, andato via poco prima del mio ritorno.
«Questa cosa che mi scorti in giro deve finire.» sussurro contro il collo di Cesare, mentre sale le scale.
Mi ha presa in braccio a mo di sposa, bagnandosi il cappotto.
«Sta zitta.» dice soltanto, appoggiando una guancia sulla mia fronte.
Calcia la porta d'ingresso e mi trascina fino in camera, appoggiandomi sulla poltrona.
«Si raga, ci penso io.» sento dire da Cesare. «Resto io, voi pensate alle ragazze.»
Mi toglie il cappotto e la maglia, sento le sue mani addosso e i jeans scivolare via a fatica.
Ha le mani fredde, mi copre di brividi.
«Mi servi sveglia.» dice, prima di prendermi a sacco di patate e trascinarmi in bagno.
Sono tutta un sospiro, non mi rendo neanche conto che mi infila in vasca da bagno con tutto l'intimo addosso e mi lava i capelli, affogandosi i vestiti.
Mi prende, mi gira e rigira come una bambola di pezza.
Dopo un'eternità, percepisco di nuovo le lenzuola calde.
Sento che spegne la luce ed esce dalla stanza.
«Cesare!» è l'ultimo urlo che riesco a fare.
La luce si riaccende.
«Che vuoi?» è scocciato, incazzato nero.
«Dormi con me, ti prego.» sussurro.
Lo sento sospirare e prendere una coperta dall'armadio per sistemarla sulla poltrona. Quando si avvicina al letto per spegnere la luce, lo tiro per un braccio e gli faccio segno di sistemarsi nel letto accanto a me.
Smette di sbuffare e sospirare, si allunga e mi da le spalle.
Lo avvolgo con le braccia e lo sento irrigidirsi.
«I tuoi occhi mi destabilizzano.» sussurro, completamente assuefatta dalla stanchezza, dalla febbre.
«Dormi, Margherita.» è autoritario.
«Ho bisogno di guardarti, ti puoi girare?» lo imploro.
«Margherita, c'è la luce spenta, è buio pesto, sono le due di notte.» elenca una serie di giustificazioni.
«E tu devi smetterla di darmi le spalle.» dico.
Si gira, stando attento a non schiacciarmi e sento finalmente il suo respiro sul viso.
«Hai usato il mio dentifricio.» è una constatazione che lo fa ridacchiare.
«Fa schifo, non so come riesci a lavarti i denti con quel coso.» borbotta.
«Lo metto sullo spazzolino e mi spazzolo i denti.» spiego e sento che ride di nuovo.
«Sei incredibile.» sussurra soltanto, accarezzandomi i capelli.
Non so se è la febbre, la vicinanza in cui l'ho costretto o altro.
Ma gli accarezzo una guancia e lo bacio.
A stampo.
Premo le mie labbra contro le sue con forza, sono quasi violenta nel farlo.
«Ghe, non credo sia una buona idea.» prova a parlare ma continuo a far combaciare le nostre labbra e a mettergli le mani addosso.
«Smettila di fare resistenza.» mi lamento come una bambina e lo sento ridere.
«Tu sei fidanzata e io non voglio ritrovarmi in una rissa.» mi spiega, attirandomi a se e stringendomi forte.
«Lo so che sono fidanzata.» borbotto. «Ma..»
«Dormi Daisy, domani hai una brutta giornata da affrontare.» mi da un bacio sui capelli e mi carezza dolcemente la schiena.
Mi sveglio all'improvviso, con il cuore in gola.
Il sole è alto e un capogiro mi costringe a stendermi di nuovo.
Ho il naso chiuso, la gola mi brucia da morire e Polpetta dorme accanto a me.
Gli lascio una carezza sul muso per svegliarlo ed infastidirlo. Non appena spalanca i suoi occhioni marroni, si mette a leccarmi la faccia.
Rido spensieratamente e lo carezzo dietro le orecchie.
«Posso avvicinarmi o mi salti addosso?» la voce roca di Cesare mi fa rabbrividire.
Lo fisso con gli occhi lievemente sgranati, smettendo di carezzare Polpetta. Chewbe è fedelmente ai suoi piedi, elegante e composto.
«Che intendi dire?» mi schiarisco la voce.
«La colazione è pronta, Marghe.» dice soltanto lasciando la stanza.
Sedute al tavolo in cucina, trovo Denia e Cecilia, intente a mangiare dei pancakes.
Nel posto che mi spetta di solito, c'è Cesare che divora la sua colazione, assieme a Chewbe, che come sempre sta attorno al suo padrone e ringhia contro Cecilia e Denia se si avvicinano troppo.
Mormoro un buongiorno che viene totalmente ignorato dalle mie coinquiline.
Entrambe si alzano e vanno via, dopo essersi scambiate uno sguardo.
Io sbuffo e mi accendo una sigaretta, scansando i pancakes che Cesare mi mette davanti con un gesto secco della mano.
Me li riavvicina e ci affianca una serie di pillole.
«Tachipirina, zerinol e una benagol.» le indica. «E queste le abbandoni per un po'.»
Mi sfila la sigaretta dalle labbra, la spezza e la getta nel posacenere.
«Serviva davvero spezzarla?» mormoro, togliendo con un coltello lo sciroppo d'acero da un pancake per poi addentarlo disgustata.
Dopo quel boccone ingerisco le due pillole e mangio la caramella, accendendomi di nuovo una sigaretta.
Sfido con lo sguardo Cesare, che mi guarda con le braccia incrociate e lo sguardo duro, seduto di fronte a me.
«Abbiamo riso, scherzato e tante cose belle.» i bicipiti guizzano e io resto per un attimo incantata. «Adesso mi merito una spiegazione.»
«Che hai fatto alla mano?» scatto subito in piedi.
«Ho tirato un pugno al muro.» spiega, mentre prendo la cassetta del pronto soccorso che abbiamo attaccato al muro della cucina.
Gli medico meticolosamente le nocche, disinfettando anche più del dovuto.
«Quando ero piccola avevo un rapporto meraviglioso con Danilo, il fratello di mia madre.» chiudo la benda bianca attorno alla mano di Cesare e mi accendo un'altra sigaretta. «Faceva il pilota, stava nell'esercito.»
«Ogni volta che andava in missione, i miei mi raccontavano un sacco di bugie. Lui invece, mi lasciava sempre con la stessa frase.» mi si forma un groppo in gola che fatico a deglutire. «"Zio Dani va ad aiutare dei bambini che non hanno più degli zii, Ghe
«Merda.» è l'unica cosa che dice.
«Quattordici anni fa un militare bussò alla porta di casa.» mormoro, fissando il vuoto. «Ad oggi, so soltanto che mio zio se l'è portato via il mare.»
«Non ho mai voluto sapere come fosse morto, i miei evitano di parlarne, così come i miei fratelli.» mi alzo la felpa e gli indico il tatuaggio sul costato, proprio quello che mi ha confessato di adorare.
«Dio o chi per lui, sta cercando di dividerci, di farci del male, di farci annegare, com'è profondo il mare.» legge con un sussurro, quel tatuaggio che gli piaceva tanto.
«Mi dispiace.» dico soltanto. «So di essere un'incosciente, so che avrei dovuto dirvelo. Credo che Riccardo sappia qualcosa, a grandi linee. Sai, essendo amico di mio cugino.»
Mi guarda in modo diverso.
In quel modo diverso.
Sono un bicchiere di cristallo che si tiene in piedi per miracolo, per quegli occhi verdi. Come tutti gli altri occhi che mutano, quando capiscono cosa c'è che non va nel mio sguardo e nella malinconia che mi porto sempre addosso.
«Solo...non farlo più.» borbotta, smettendo di guardarmi in quel modo.
«Promesso.» accenno un sorriso tirato, ma dentro di me sono sorpresa.
Solo in mezzo al mare, com'è profondo il mare; penso.

Margherita | Cesare CantelliWhere stories live. Discover now