27; Le vecchie abitudini sono dure a morire

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Quella notte, non avevo dormito molto.
Aveva chiamato Denia, il giorno prima, completamente ignara che tornare nel suo vecchio appartamento di Bologna fosse una cosa del tutto sbagliata.
Il vecchio salotto, era rimasto lo stesso di sempre, nonostante dopo di lei, la casa era stata affittata per anni da altre due amiche di Denia.
Ovviamente, non avevo avuto il coraggio di mettere il naso in quella che era la mia stanza, perché sapevo mi avrebbe scombussolata ancor di più di quanto non sia già in questo momento.
Con un sorriso triste mi torna in mente quando Polpetta stette qui per quel folle anno, amato e coccolato da tutti; ironia della sorte vuole che sia morto proprio l'11 febbraio.
Ed è ciò che mi ha portata qui, fondamentalmente.
Dopo una lenta agonia, è morto stamattina alle undici, lasciandomi una voragine nel petto al solo pensiero di tutto quello che abbiamo vissuto assieme. Sono partita in auto, subito dopo un pranzo di famiglia triste, che non mi sento di definire tale per il solo fatto che l'unico dei miei fratelli ad essere presente è stato Michele, capitato a Roma per puro caso.
È stato lui, a dirmi che avevo bisogno di Bologna.
Mi ha detto in un abbraccio stretto e sentitissimo, che avevo bisogno di rivedere Francesco, Nelson e Beatrice. Così, dopo un saluto con Sonia dell'ultimo momento, mi sono ficcata in macchina ed ho sparato a tutto volume la discografia dei Rolling Stones.
Durante le brevi pause fatte in due stazioni di servizio, ho chiamato Bea e le ho chiesto se lei e Nelson avessero ancora quella brandina che mi ha ospitata più volte di quanto mi piaccia ammettere. Aveva accettato questa mia fuga a metà tra l'entusiasta e il turbato, dicendo che a Nelson e Tonno avrebbe fatto piacere passare una serata tutti insieme come ai vecchi tempi.
La porta di casa si chiude all'improvviso con un cigolìo e il viso di Denia riesco ancora a distinguerlo nel buio nonostante gli anni passati.
«Vedo che le vecchie abitudini sono dure a morire» so bene che sta sorridendo, perciò ricambio con una smorfia poco convinta e socchiudo gli occhi non appena accende la lampada accanto all'ingresso.
«Sai quanto mi piaceva starmene qui al buio a pensare alla vita, Dede», mi alzo in fretta e corro incontro al suo abbraccio.
«Resti a cena?» mi chiede gentilmente, facendomi cenno di seguirla in cucina.
Scuoto la testa spiegandole velocemente il mio programma con gli altri, e lei annuisce un paio di volte, mentre lava i piatti ed inizia a cucinarsi la cena.
«Però sto a Bologna un altro paio di settimane, credo, perché dovrei avere delle riprese di una nuova serie Netflix nei dintorni e mi è comoda» faccio spallucce, «Perciò possiamo andare a pranzo, dopodomani».
Annuisce lestamente, dopo aver lanciato uno sguardo al calendario.
Restiamo un altro po' a chiacchierare e la stringo in un abbraccio non appena ci ritroviamo sull'uscio della porta di casa.
Quando mi ritrovo sola, sul pianerottolo, fisso la porta di quello che una volta era l'appartamento di Nelson, e sorrido nel ricordare che durante il primo periodo della nostra amicizia, lasciavamo entrambe le porte principali degli appartamenti spalancate, per rendere più pratici gli spostamenti dall'uno all'altro, ed era come vivere assieme ad altre mille persone.
Il trillo del mio telefono mi distrae dai miei ricordi e nel leggere il nome di Marco, mi viene automaticamente da sorridere.
«Daisy» era forse l'unica persona a chiamarmi ancora così.
«Paga, dimmi tutto» mi appoggio alla parete e inizio a battere nervosamente il tacchetto dei miei stivaletti a terra, facendo rimbombare il rumore in tutto il piano.
«So che sei a Bologna, prima cosa» alzo gli occhi al cielo, sicura che quest'informazione dev'essere scappata a Nelson. «E per questo volevo dirti che devi assolutamente cenare con me, una sera di queste, perché devo presentarti una persona».
«D'accordo, organizza e dimmi i dettagli, che ora devo andare da quella pettegola di Nelson» ridacchio, chiudendo in fretta la chiamata e precipitandomi lungo le scale.
Non so come, ma riesco a scontrarmi con un ragazzo che sale i gradini più in fretta di me.
«'Tacci tua fratè, che sei de marmo?!» borbotto, massaggiandomi una spalla con una smorfia del viso e prendendo al volo la mano che mi si para davanti gli occhi.
Lo sconosciuto mi tira su talmente veloce che quasi gli cado addosso.
Quando i nostri occhi si scontrano, entrambi tratteniamo il fiato.
«Ghe» la mano che prima stringeva la mia, riesce ad ancorarsi sul mio fianco. Sento le gambe molli e ringrazio che mi tenga, perché altrimenti non riuscirei a reggermi in piedi autonomamente.
«È il 2027» riesco a dire, con le sopracciglia aggrottate e gli occhi lucidi. Lui annuisce e ripete ciò che ho detto, arricciando le labbra in un sorriso malinconico.
Riesco a leggere nei suoi occhi tutto l'amore che non ci siamo dati in questi anni e sento nelle ossa il suo sguardo.
Quasi dieci anni che non ci rivolgiamo la parola, ma è come se non fosse passato un minuto da quando eravamo appena ventenni e giocavamo a farci gli occhi dolci proprio lungo queste scale.
«Domani è dodici febbraio» dice soltanto, mentre lo accarezzo con gli occhi e cerco di capire quante cose ha visto la sua pelle durante la mia assenza.
«Mi porti al mare, stanotte?» chiedo con un filo di voce, persa di nuovo nei suoi occhi verdi.
Si lecca le labbra velocemente e tremo, ricordando all'improvviso com'era baciarlo e sentirlo mio.
Con una carezza leggera, sposto via la sua mano e la intreccio alla mia.
«Ho lo stesso numero» sussurra, facendo dei cerchi col pollice sul dorso della mia mano. «Sono sicura che a Nelson non dispiacerà lasciarti andare per la notte».
Mi lascia in fretta la mano e mette le distanze tra noi. Se mentre pronunciava quelle parole, avevo sulle labbra l'ombra di un sorriso, ora è svanito.
«Nelson sa già che sarei sparita» annuisco, per poi illuminarmi al ricordo dell'ultima volta che sono stata a Bologna. «È lui a dirti quando sono in giro – passo una mano tra i capelli e mi do dell'idiota per non averci pensato prima – per questo quella volta non c'eri, sapevi che mi avresti incontrata e mi hai evitata».
Risponde con un sorriso colpevole alle mie accuse e io sbuffo una risata scuotendo la testa rassegnata.
«Chiamami, quando avete finito la vostra serata» annuisco in risposta e resto a fissarlo mentre sale le scale in fretta. Con la stessa fretta, ripercorre i gradini e mi abbraccia forte, stampandomi un bacio tra i capelli.
Ricambio l'abbraccio sorridendo e constatando soltanto adesso che ha lo stesso odore di sempre.
«Ti stanno bene i capelli corti» sussurra, prima di lasciarmi di nuovo sul pianerottolo, con un sorrisino sulle labbra e il cuore più leggero.

Margherita | Cesare CantelliWhere stories live. Discover now