18. Nessun cuore infranto

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Pedalavo veloce in sella alla mia bicicletta, ringraziando il tirocinio per avermi dato la possibilità di fuggire da quel ridicolo corridoio, quello in cui nemmeno mezz'ora prima avevo tentato di invitare Bakugo al ballo scolastico del giorno dopo.

Ci misi gran parte del mio coraggio per riuscire a pronunciare quelle parole, eppure la dannata testa calda nemmeno volle ascoltarle.

Meglio così.

Aumentai il ritmo della pedalata. Il mio volto era paonazzo, le mani indurite totalmente sul manubrio.

Mi sentivo ancora scosso per tutto quello che era successo. Avevo il battito accelerato, e mi venne difficile stabilire con certezza come mi sentissi. Arrabbiato? Deluso? Amareggiato?

Sfrecciavo per le vie della città come un fulmine, lungo le strade che oramai conoscevo a memoria, e che avrei potuto percorrere anche ad occhi chiusi.

Iniziai a rimuginare sulle parole di Mina.

"Vedrai che troveremo una casa migliore di quella".

Aveva ragione, dannatamente ragione.
Amare Bakugo sarebbe stato per me soltanto un suicidio, ed io lo sapevo, lei lo sapeva, chiunque lo avrebbe saputo.

Eppure Ashido non lo aveva mai visto, mai conosciuto per davvero.
Lei non aveva mai incontrato il mio Bakugo Vaniglia.

In preda alla rabbia, con il culo piantato sopra il sellino di quella bicicletta oramai vecchia e logora, e gli occhi socchiusi colmi di lacrime, giunsi velocemente alla conclusione che sarebbe stato meglio dimenticarmi di Katsuki. Dimenticarmi di lui completamente.

"Andrò a quella cazzo di festa e mi divertirò." esclamai rivolto a me stesso, schivando per un pelo un gatto che decise di attraversare il vicolo stretto proprio in quel momento.

La rabbia e le lacrime continuarono a viaggiare di pari passo, fomentandosi a vicenda. La scena di quella mattina continuava a ripresentarmisi davanti agli occhi.

Arrivai a destinazione, legando frettolosamente la bicicletta alla solita vecchia catena.

"Non ha nemmeno voluto ascoltarmi!" urlai esasperato, prendendomela con il palo della corrente  di fianco all'entrata dell'ufficio di Fat Gum. Il rumore  prodotto dal calcio che sferrai contro quell'ammasso di ferraglia rimbombò per tutta la mulattiera.

"Io volevo invitarti, e tu hai fatto la testa di cazzo! Perché devi essere sempre una testa di cazzo?!"

La mia scenata di fronte al palo andò avanti ancora per un po'. Le lacrime presero a sgorgare prepotenti dai miei occhi, ed io, in quel vicolo marcio e desolato, non tentai nemmeno di fermarle.

"Prima lo zucchero, poi il veleno, poi di nuovo lo zucchero, poi di nuovo il veleno! Beato chi diavolo ti capisce!"

Una voce mi strappò via dalla conversazione unidirezionale con l'oggetto.

"Dovresti dirglielo in faccia, Kirishima."

Mi voltai di scatto, scoprendo Tamaki-Senpai alle mie spalle. Era appoggiato al muro, le braccia affusolate incrociate sul petto.
Il suo sguardo era fisso su di me, teneva un sopracciglio alzato, sempre serio come al solito.

Normalmente mi sarei vergognato a morte dopo essere stato colto in flagrante nel bel mezzo di un delirio emotivo, ma con il Senpai non fu così. Lo avevo tirato via negli ultimi tempi da talmente tante crisi personali che, per una dannatissima volta, si sarebbe rassegnato di fronte al mio più che legittimo turno.

A voce bassa - Kiribaku/BakushimaDove le storie prendono vita. Scoprilo ora