• Capitolo LVII •

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"AAH..."
Le sillabe si impastavano di gemiti, le spalle ricurve l'uno sull'altra, il respiro che inciampava tra le pieghe del lenzuolo stropicciato.
"Guardami..." gli disse lei, ansimando e portando il viso del balancer a un respiro dal suo.
Perché voleva la guardasse negli occhi, mentre facevano l'amore? Forse sentiva il bisogno di mostrarsi in tutta trasparenza, necessitava sapere che Blake di lei si fidava, completamente e senza alcun timore. E quel sentimento, forte e radicato come rami di quercia, ormai era visibilissimo. Spiccava come rubini grezzi dentro agli iridi e si divampava nei seni.
Il ragazzo fece forza sugli avambracci, ancora non del tutto capace di contenere e gestire il fuoco e il sangue che saliva alle tempie. Spinse, allora, con più forza e ad ogni nuova e più intensa contrazione dei muscoli, si chiedeva cosa potesse esserci di più bello al mondo. Lo spettacolo della vita, l'amore sconsiderato e il vortice della passione che incastona due corpi in un unico anello di piacere e brividi. L'ebrezza dei sensi, sentirli tutti al medesimo tempo, vividi e palpabili come tagli nel vetro.
L'estasi raggiunse l'apice, anticipata da un urlo sputato all'unisono, e il balancer si posò esausto sul petto di Skyler, sudata e tremante.
La giovane respirava forte, quasi come appena uscita da ore in apnea, e rimase a fissare l'alto soffitto con occhi sbarrati.
L'adrenalina era ancora in circolo e sentiva le gambe pesare tonnellate, ma era rassicurante il calore che il corpo di Blake le trasmetteva.
"Ti amo così tanto..." sibilò, con occhi ancora puntati contro l'intonaco bianco.
Il balancer cercò di controllare il respiro e scivolò su un fianco, coprendola poi con un lembo di lenzuolo. Piccoli gesti di cura e attenzione che rispondevano a un anche io. La baciò con delicatezza sulle labbra e rimase in silenzio a contemplarne il profilo del viso.
"A cosa pensi?" chiese lei, aggiustandosi meglio sul materasso.
"A niente... assolutamente nulla." le disse, a bassa voce, "È una cosa negativa?"
Skyler sorrise, "No affatto, anzi... spesso è un buon segno. Significa che si è felici."
Blake sembrò rifletterci un attimo e rimase in silenzio, mentre la ragazza saltava giù dal letto, andando a rovistare tra le tasche dei jeans.
"Che stai cercando?" le chiese il balancer.
La giovane strinse qualcosa in un pugno e tornò fra le lenzuola, "Tieni, voglio che questo lo tenga tu."
Aprì il palmo: una catenina avvolgeva un piccolo medaglione argentato.
"Cos'è?"
"Me lo regalò mio padre quando avevo nove anni..." rispose, osservandolo adesso fra le mani di B-273, "È un portafortuna. A me ha sempre aiutato. Per questo voglio donarlo a te."
Blake rimase per un attimo in silenzio a fissarlo.
"Non... non posso accettarlo. È tuo." stirò il braccio verso lei.
"No, insisto." replicò Skyler, "Voglio che tu lo custodisca tra le tue cose più care."
"Io non so cosa significhi tra le cose più care. Non ho mai avuto alcun cimelio..."
"Beh, adesso ne hai uno. Abbine cura e non permettere mai a nessuno di confiscartelo." accennò un sorriso.
Blake deglutì, "Perché? Perché fai questo?"
"Sai, è così che si fa. Io mi occupo di te e tu ti occupi di me. Ci si salva a vicenda."
"Non c'è alcun motivo per cui io dovrei essere salvato."
"Pensi di non meritarlo?" lo scrutò.
Il ragazzo, allora, inarcò leggermente la curva delle labbra, tradendo un leggero nervosismo passeggero "Se lo pensassi significherebbe sentirmi in colpa per la mia vita... per ciò che faccio. Per ciò che sono. E credo che tu gioiresti nel sentirmelo dire. Sarebbe certamente un grande passo avanti per te."
"Ma non è così." risolse lei.
"Già." Blake sgranchì il collo, quasi in attesa di vedere negli occhi di Skyler un velo di delusione.
Lei, tuttavia, non mostrò segni di amarezza.
"Sai..." disse, "Io ti capisco." proseguì inaspettatamente, di fronte allo stupore del balancer, "È la tua famiglia, nel bene e nel male. Questa... questa città, l'uniforme che indossi ogni mattina. Il tuo ufficio, le regole... persino Mr. Peace. È la tua famiglia. Né più né meno. È qui che sei cresciuto, è questa l'aria che hai respirato."
Lo sguardo volò verso la grande finestra panoramica. Il Sole albeggiava dorando i grattacieli più alti.
"Mia madre faceva uso di droghe." sputò via, all'improvviso, continuando a osservare la nascita del nuovo giorno.
"Droghe?" chiese lui, sentendosi distante anni luce.
"Sì. Sulla Terra se ne fa largo uso. Sono sostanze che la gente assume per dimenticare, annullarsi... oppure semplicemente staccare il cervello e smettere di soffrire."
Voltò il viso verso Blake che l'ascoltava in solenne silenzio, "Rappresentano un po' il reset-41 terrestre."
Sorrise sarcastica, con gli occhi pieni di malinconia.
"Mia madre ne era completamente dipendente. Crack, metanfetamine, eroina... Era un vortice nero che l'aveva completamente risucchiata." deglutì e iniziò a sentire un po' di dolore grattare alla gola, "Mio padre era uno dei migliori poliziotti della Contea. Non riusciva a sopportare l'idea di trovarla ripetutamente in quelle condizioni... era sempre lì, pronto a coprirla e a toglierla dai guai."
Si fermò per un attimo.
"Quando rimase incinta di me, si faceva già. Nacqui prematura e i medici si stupirono di trovarmi sana, nonostante tutto. Entrò ed uscì dagli istituti di disintossicazione per anni... io la odiavo."
Poggiò la schiena nuda contro la testiera del letto, "Durante l'adolescenza raccontavo ai miei compagni di scuola che fosse morta. Era come se l'idea di non avere una madre fosse di gran lunga più facile da sopportare rispetto a quella di averla viva ma del tutto assente. Pensavo... pensavo che non mi volesse bene. Mi chiedevo... perché lo fa? Perché non pensa a fare semplicemente la madre, a prepararmi la cena... ad accompagnarmi alle feste in classe?"
Prese un respiro profondo, "Quando nacque mio fratello ero già abbastanza grande da capire che non avrei permesso che anche lui soffrisse allo stesso modo di come avevo sofferto io. Così gli feci da amica, sorella e mamma. E col tempo riuscì a perdonare tacitamente anche mia madre. Non so come ci riuscii. Forse mi resi conto che, a volte, devi semplicemente imparare ad accettare anche gli errori della gente. E non è facile."
Asciugò velocemente una lacrima che si era formata sull'angolo interno dell'occhio, "Non possiamo pretendere che tutto sia sempre perfetto. E non possiamo scegliere la famiglia in cui nascere. Però resta pur sempre la nostra famiglia, nonostante tutto. Quindi io ti capisco, Blake. Questo pianeta è la tua famiglia. Ed io spero di esserne entrata a far parte."

***

Il mattino era ormai sbocciato come fiordalisi al sole. I due giovani si erano già rivestiti e avevano fatto una colazione frettolosa e frugale sul divano del grande salotto.
"Quando ci rivedremo?" chiese impaziente Skyler, infilandosi il giubbino di pelle nera.
Quella situazione sconnessa e clandestina andava avanti dal giorno in cui si erano riavvicinati: ogni tanto lei andava da lui, più spesso lui da lei. Passavano intere nottate insieme, facendo l'amore e parlando fino a scoprirsi anche l'anima. Poi tornavano a intrecciarsi sotto alle lenzuola fino all'alba, trattenendo i respiri e i gemiti, per timore di essere sentiti.
"Fra tre giorni." rispose il balancer.
La ragazza mise in spalla lo zainetto in cuoio, "Anche la volta scorsa dicesti così... ma poi sono diventati sette i giorni."
"Tre giorni..." ribadì lui con tono rassicurante, "Te lo prometto."
Skyler annuì lentamente, fidandosi di quello sguardo premuroso, "Tre giorni." ripeté, strappandogli sotto voce una promessa.

***

Se c'era un momento in cui Blake sentiva di avere davvero in mano il potere su quella città, non era nell'istante in cui ordinava a un intero plotone di uomini armati di fare fuoco contro una banda di rivoltosi, né in quello in cui vedeva davanti a sé supplicare invano i condannati per aver salva la vita. Ma era quando percorreva i corridoi della Red Tower e i soldati in alta uniforme, che presidiavano le sale, si aggiustavano il colletto o raddrizzavano la schiena lanciando un'occhiata glaciale al compagno. Blake, allora, li osservava di sfuggita, attraversando la lunga galleria silenziosa, e ogni tanto si fermava di fronte a uno dei soldati iniziando a fissarlo dalla testa ai piedi. Non un esitazione da parte dell'uomo, no di certo. Erano ben addestrati, temprati da anni e anni di accademia d'alta specializzazione. Eppure la palpebra tradiva sempre un leggero tremolio, che si faceva più acuto se lo sguardo del balancer persisteva addosso. A Blake piaceva innescare quei sadici spettacoli, lo divertivano intimamente. Sapere di incutere timore.
Ma, quella mattina, la sua attenzione fu catturata da altre questioni che si stavano svolgendo all'interno dell'edificio. Sentì delle voci diffondersi fino al corridoio, che attraversò lentamente fino a fermarsi davanti al portellone dell'ufficio di Mr. Peace, da cui provenivano.
"Quindi lei è arrivato fin qui per chiedermi cosa?!" diceva con tono alto e adirato lui.
"La città è in tumulto, signore. Sono mesi che non riceviamo provvigioni né visite. I cittadini iniziano a pensare che a lei importi solo di Osmium City." replicò con fermezza la voce di un uomo che Blake non riuscì a collegare a nessuno dei generali della Red Tower.
"ED È COSÌ, MALEDIZIONE!" sbottò Mr. Peace, "Quella città non ha futuro, colonnello Benson. Non potrà mai aspirare al livello di benessere e civiltà che questa metropoli ha costruito con rigore e sacrificio."
"Ma non per questo merita di essere dimenticata." rispose l'uomo, "Ascolti, signore. Sappiamo entrambi perché quella città esiste. È una risorsa energetica fondamentale per Osmium, nonché il principale centro sperimentale. Se Para..." si bloccò, "Se la città entrerà in anarchia, trascinerà con sé anche Osmium City. E sarà la fine per questo governo."
"Parabellum..." disse tra sé e sé il ragazzo, un attimo prima che il portellone si aprisse proprio davanti a lui.
"Blake..." disse compiaciuto Mr. Peace, "Non è necessario continuare ad origliare in corridoio. Entra pure e dacci il tuo prezioso parere. Voglio che il colonnello conosca in carne e ossa il futuro di questa gloriosa città."

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