15.

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Pioveva, quel pomeriggio. Una pioggia fina, fredda e maledetta. Il cielo era coperto da una morbida coltre di nuvole, che Ermal percepiva però soffocante. Gli sembrava di trovarsi sotto una pressa. Un enorme rullo compressore che lo schiacciava fino a togliergli il respiro.

Anche il cielo stava piangendo assieme a lui. Lacrime dolci, che niente avevano a che vedere con quelle amare che scivolavano sulle guance morbide del giovane.

Si trascinava da una stanza ad un'altra, senza però rimanerci per più di cinque minuti. Si sentiva stanco, mortalmente stanco, come se il corpo fosse un fardello da portare legato alla schiena.

Apatico. Totalmente apatico. Distrutto. E perennemente in ansia.

Questo era quello che era diventato Ermal in quei mesi: un fantasma. Un debole. Un vinto.

Anche concentrarsi sui libri era diventato impossibile. Non riusciva a mantenere il cervello sveglio. La sua mente rifiutava con fermezza quelle nozioni, portando la sua immaginazione a vagare senza posa.

Pregava di poter trovare sollievo, pregava di poter tornare a respirare senza fatica. Ma ogni giorno era sempre peggio. E non era più convinto di voler continuare a vivere in quella condizione.

Era tutto così difficile, così triste. E lui si sentiva così solo.

L'unica cosa che era in grado di alleggerirgli l'anima era scrivere, come se l'inchiostro che scorreva sulla carta potesse davvero portare con sé anche le sue paure.

Le sue poesie gli somigliavano: brevi, senza né capo né coda, ma tremendamente sincere e tristi. Con la tristezza lui aveva imparato a condividerci la stanza, anche se alla sua presenza non si era ancora abituato del tutto. Era seduta lì, appena di fianco all'ansia.

Si ritrovava spesso a pensare quanto i lividi fossero indolori in confronto alla tempesta che aveva dentro. Quelli come si formavano se ne andavano, mentre ciò che lui stava provando internamente non aveva guarigione.

Non sapeva se aveva più un cuore. Non sapeva dove cazzo quest'ultimo fosse andato a nascondersi. Forse era scappato, forse era morto. Forse non lo aveva mai avuto.

"Non ce la faccio più". L'aveva urlato a pieni polmoni, davanti allo specchio. L'aveva urlato al suo riflesso, come se non fosse davvero parte di sé, come se potesse uscire dalla superficie ed abbracciarlo. Sentiva freddo, costantemente freddo, da quando non aveva più vicino la figura consolatrice di Fabrizio a scaldarlo.

In un modo d'ira colpì lo specchio, che si frantumò in mille pezzi, ferendogli la mano ancora chiusa a pugno. Il riccio non provò dolore, però. Anzi, non sentì niente. Le mani salde al marmo freddo del lavandino, il capo chino e il respiro corto. Non muoveva un muscolo, solo il petto si alzava e si abbassava ritmicamente.

Un tuono in lontananza lo fece sobbalzare, ridestandolo da quel momento comatoso. Prese un frammento di specchio ed iniziò a rigirarlo tra le dita. Il bordo frastagliato, il vetro freddo a tagliargli la pelle. Aveva bisogno di provare qualcosa. Dove c'è sangue c'è vita, se l'era sempre ripetuto come un mantra. E quella che sgorgava dai suoi polsi era indubbiamente ed inesorabilmente vita.

Non si stava provocando ferite mortali, non era quello il suo scopo. Non lo era mai stato. In lui la tristezza, la rabbia e la frustrazione echeggiano nella mente fino ad ingrandirsi a dismisura e a trasformarsi in angoscia insostenibile. A questo punto procurarsi un dolore fisico sembra essere l'unico modo per smettere di pensare e di soffrire con l'anima. O per lo meno, questo era quello di cui era convinto Ermal.

Dopo aver cercato di sistemare la confusione che regnava in quel bagno, si diresse in cucina ad aspettare il padre per cena.


Cerco solo il modo di trovare la pace che non ho [MetaMoro]Dove le storie prendono vita. Scoprilo ora