Capitolo VI

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Lorenzo Anselmi era seduto alla sua scrivania con una mano a sorreggergli il capo e l'altra che tamburellava sul legno, mentre, imbronciato, sbuffava come un toro inferocito. Difficilmente gli capitava di avere l'umore nero per due giorni di seguito, eppure quella mattina aveva il morale a pezzi. Quello stato di nervosismo lo faceva sentire una donna mestruata: irascibile, insoddisfatto cronico, polemico a livelli smisurati, in altri termini, tutto ciò che più detestava del genere femminile.

Quel martedì per Lorenzo era una di quelle giornate che partivano col piede sbagliato, quelle in cui si alzavano gli occhi al cielo e si inveiva a gran voce contro il fato accanito; aveva chiuso occhio solo qualche ora, si era rovesciato il caffè sulla sua camicia preferita, la sua auto lo aveva lasciato a piedi a causa di un problema alla batteria costringendolo così al ritardo, e la sua mente era così affollata da pensieri che gli fu impossibile trovare la concentrazione.

Osservava svogliato gli atti cosparsi sulla sua scrivania e neanche la pressione della scadenza imminente riuscì a distoglierlo da quel groviglio sconclusionato che gli confondeva il cervello.

Avvertiva un incessante fastidio opprimergli il petto, proprio dal lato del cuore, e la classica irrequietezza che faceva vibrare il corpo quando si veniva sopraffatti dal senso di colpa.

«Oh fanculo!» sbottò, lanciando malamente la penna sul tavolo.

Un conflitto interno scoppiò nei meandri della sua coscienza: il suo orgoglio di maschio alfa si scontrò ferocemente con la parte più arrendevole e compassionevole di se stesso. Si sentì diviso tra i principi categorici della sua essenza, che gli proibivano anche solo di considerare l'eventualità di chiedere scusa a Marta Bianco, e quella minuscola vocina nascosta sotto ampi strati testosterone che, come un eco lontano, lo spronava ad andare dalla sua collega per rimediare.

Inutile dire chi stesse avendo la meglio in quel momento; Lorenzo Anselmi era fermamente convinto di non essere in torto, d'altronde chi decideva di portarsi a letto era affar suo, eppure quel rumorosissimo mormorio era ostinato a non dargli tregua e lo stava conducendo a poco a poco sull'orlo della follia.

Non faceva altro che ripetersi che lui era un uomo e che il giudizio di una donna sulle sue scelte personali era irrilevante e lo sarebbe stato anche in quel caso, se non fosse che gli occhi verdi timidi e colpevoli di Marta Bianco gli avevano talmente strattonato il cuore la sera precedente, da perseguitarlo ogni qualvolta provasse a convincersi di avere la coscienza talmente integra da non dover fare ammenda.

Si portò le mani nei capelli e sospirò sommessamente, mentre, stanco, controllava l'orario sul suo orologio da polso.

Erano quasi le undici e mezza e di quella piattola della sua collega non aveva scorto neanche l'ombra.

Lorenzo, combattuto, si sentì a poco a poco logorare dall'irrefrenabile bisogno verificare se quell'assenza fosse realmente fisica o solo spietata indifferenza.

Cercò di fronteggiare quell'oscuro impulso che gli rendeva inquieti gli arti, ma purtroppo lui curioso ci era nato, e dopo inutili sforzi, lasciò il suo studio e si diresse in sala relax.

Vagò con lo sguardo per tutto l'ambiente, mentre internamente sperava di trovarla nei pressi della macchinetta del caffè, al riparo da eventuali attentati alla sua vita o nel caso opposto, circondato da potenziali testimoni. Sfortunatamente per lui, di Marta Bianco non c'era traccia e l'unica possibilità che gli rimaneva– e anche quella più temuta – era il suo ufficio.

Una lieve ansia cominciò a pervaderlo e Lorenzo Anselmi finì per redarguirsi severamente: lui era un uomo e neanche in un universo parallelo avrebbe dovuto temere una donna che gli arrivava a stento al petto.

Se dio fosse stato donnaOnde histórias criam vida. Descubra agora