Capitolo 17

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Era passato un intero giorno da quando avevo visto June su quel tavolo operatorio, ma non avevo ancora nessuna notizia di lei. Le avevo mandato messaggi, l'avevo chiamata, eppure, ogni volta che il mio telefono vibrava, mi lanciavo sul letto per vedere se mi avesse risposto, ma non era mai lei.
Andai allo specchio e mi studia minuziosamente. Ero realmente io? Ero io che avevo picchiato a sangue la mia amica?
Mi sentivo male, avevo la nausea per tutto quello che le avevo fatto. Raccontai ogni cosa a mio padre e mi sgridò severamente per essere andata nel bosco con una novizia, sapendo che in giro ci fosse un folle omicida, poi mi abbracciò forte, come se tentasse di attirare a sé il mio dolore, rendendomi libera dal rimorso.
Andai a scuola per vedere se June fosse stata là, ma per mia sfortuna non c'era.
Derek era al tavolo con Alec.
Quando mi videro sgranarono gli occhi e poi tornarono a mangiare. Mi avvicinai a Derek.
- Ti posso parlare?
- Non sa niente di June-, rispose al posto suo Ashley.
- Glielo avete detto?
- Il branco doveva sapere...-, disse Alec.
- Sei davvero brava a rovinare le vite altrui-, commentò Victoria con uno sguardo da vipera.
- Non ti permettere...
- Altrimenti? Ci picchi a sangue come hai fatto con June?
Quelle parole mi ferirono l'anima, gli occhi cominciarono ad inumidirsi.
Tyler irruppe nella mensa, i suoi occhi erano diventati gialli fluorescenti per la rabbia.
- Devi starle lontano, hai capito?!-, urlò Tyler riferendosi a June.
- Io non volevo...
- Se le farai di nuovo del male, giuro che l'ultima cosa che vedrai saranno i miei artigli sulla tua gola!- Derek si mise tra noi due, mentre Alec lo tratteneva con la forza e io scappai fuori dalla sala mensa e corsi dall'unica persona che tentava ancora di aiutarmi.
Bussai alla porta dell'ufficio di Tyrone.
- Entra!
Spinsi la porta e mi sedetti alla scrivania.
- Ho bisogno di un permesso per tornare a casa.
- Stai male?- chiese preoccupato.
- C'è stata una violenta discussione tra me e altri ragazzi e...
Prese un foglio e ci scribacchiò sopra qualcosa e poi firmò.
- Sei ufficialmente dimessa per oggi.
- Grazie!
- Ma ricordati che i problemi si affrontano...
Perché non vieni a farci visita alla palestra oggi?
Cominciai a pensare che mi sarebbe servito un po' di allenamento dato che l'indomani ci sarebbe stata la luna piena e avrei dovuto tener d'occhio dei lupi mannari inferociti.
- Ci sarò!
- Allora passa più tardi da casa mia che ti consegnerò le chiavi.
Me ne andai dal suo ufficio e corsi a casa. Ero talmente esausta per la litigata che gli occhi mi si chiusero.

Ero di nuovo in quella chiesa, ero circondata da persone felici che ballavano una danza tribale, c'erano donne e ragazzini con dei disegni folkloristici sul viso e sul corpo.
Ad un certo punto ogni suono e movimento si spense. Tutti mi guardavano terrorizzati; mi accorsi solo in quel momento di impugnare una torcia infuocata. Guardai una donna bellissima, lei sembrava stesse proteggendo un ragazzino. Volevo dir loro di star tanquilli e che non avrei fatto loro del male, ma non appena mi si palesò quel pensiero nella mente, la mia mano lasciò andare la torcia, come se il mio corpo avesse avuto vita priopria e non fosse d'accordo con le mie intenzioni. Le assi in legno della cappella cominciarono a bruciare come carta. I loro visi terrorizzati che cercavano una via d'uscita, ma era come se quella chiesetta non avesse mai avuto le porte. Il fumo penetrava denso nei polmoni e soffocava ogni cellula del corpo. La pelle cominciava ad arrossire, fino a diventare magenta.
L'odore era così pungente che mi penetrò nel cervello e stampò una macchia indelebile su di esso.
Anche io cominciavo ad annaspare e a tossire. Una trave cadde sopra di me e mi risvegliai sul divano accaldata e grondante di sudore.

Andai a farmi una lunga doccia per togliermi quell'orribile odore tra i capelli.
Quel sogno era così reale da non sembrarlo, era più come un ricordo...
Lavai via quel pensiero come anche la puzza di fumo che era solo nella mia testa.
Presi una borsa e andai da Tyrone.
Ormai erano i primi di novembre e il cielo diventava scuro sempre più presto. Il rossore tiepido del sole stava dando lentamento spazio ad una piccola luna pallida che capeggiava sul mondo notturno.
Entrai nell'edificio e salii fino al piano di Tyrone. Bussai alla porta e una voce al di là della stanza mi rispose di entrare.
Sbucò all'improvviso dal corridoio, aveva indosso soltanto i pantaloncini.
"Sta diventando un'abitudine vedere bei ragazzi senza maglietta", pensai.
Doveva appena essersi fatto una doccia, perché delle goccioline d'acqua scivolavano luminose sulla sua pelle d'ebano.
- Le chiavi per la palestra sono su quel tavolo, prendile pure.
Quando si girò di schiena, notai delle grosse cicatrici lucide. Dovevano essere state inflitte tempo fa.
Quel ragazzo era sempre più misterioso.
Presi le chiavi e andai all'ultimo piano, girai dentro la fessura e la porta si aprì con uno scatto.
Quando entrai nella palestra, mi aspettai di vedere i ragazzi in allenamento, invece le luci erano spente e nessuno era presente.
Andai a cambiarmi e poi tornai nella palestra. Tyrone si trovava alla postazione dei pesi. Era sdraiato su una panca e stava alzando un grosso manubrio.
Quando mi vide appoggiò rumorosamente il peso al suo posto e mi raggiunse.
- Come mai non c'è nessuno?
- Non sei contenta di avere la palestra tutta per noi?-, rispose sviando la domanda.
- Vieni.
Lo seguii alla zona pesi dove mi diede qualche consiglio sul come tenere i pesi e mi diede molti esercizi da fare per rafforzare le braccia.
- Cosa ti affligge?-, chiese di punto in bianco.
- Niente.
- Allora perché sei venuta nel mio ufficio in tutta fretta per essere dimessa?
- Ho avuto una discussione-, spiegai con il fiato corto dovuto dall'allenamento.
- Solo uno scambio di idee o anche qualcos'altro?
Non capivo come facesse a saperlo.
- No.
- Lascia giù i pesi e mettiti in posizione davanti al sacco-, comandò.
- Tieni la guardia alta, così- mi sistemò i pugni nella posizione corretta.
- Ora voglio che tu tiri un pugno.
Non appena le mie nocche toccarono il sacco, provai un dolore lancinante alla mano.
Le nocche erano di una sfumatura violacea giallastra e alcune ferite si erano riaperte.
Mentre io ero seduta per terra per il dolore, Tyrone arrivò con una valigetta del pronto soccorso. Mi pulì le ferite con un disinfettante, che aumentò il dolore bruciante alla mano, e poi la fasciò con una benda.
- Il corpo non mente mai, perché farlo tu?- Si sedette accanto a me.
- Cos'hai fatto alla schiena?
- Un animale.
Mi toccò sulla coscia nel punto in cui il dente mi aveva ferite. I suoi polpastrelli sembravano stessero disegnando un cerchio perfetto attorno alla cicatrice.
Mi toccai istintivamente il petto per cercare il mio ciondolo.
- Un animale-, risposi.
Rimanemmo in silenzio e guardammo il cielo notturno fare ormai capolino ad Oldwood.
Lui si alzò e mi tese il suo braccio per aiutarmi ad alzarmi, sull'avanbraccio notai un simbolo particolare.
Sembrava un marchio di fuoco, una bruciatura a forma di sole.
Accettai la mano e mi tirò su senza sforzi.
- Che cos'hai sull'avambraccio?
- È un marchio, un giorno ti racconterò la storia di come l'ho ottenuto, ma non sei ancora pronta.
Lo spinsi scherzosamente.
- Io pensavo che un consulente preferisse le parole alle mani.
- Non siamo mai come appariamo agli occhi degli altri.
- E questo cosa significa?
- Significa che non sempre l'abito fa il monaco.
- Hai deciso di parlare per enigmi?- Sorrise a trentadue denti.
- Forza vatti a cambiare.
- Agli ordini!
Andai sotto la doccia e lavai via sudore e fatica dal mio corpo.
Uscii dalla doccia e mi vestii prendendomi il mio tempo.
Cambiai la fasciatura alla mano che si era completamente bagnata e tornai nella palestra.
- Questa è la tua personalissima chiave, così potrai allenarti quando vorrai.
- Grazie-, risposi.
- Forza, ti accompagno a casa.
- Tranquillo, non serve...
- Per me è un piacere.
Salimmo entrambi sulla sua vecchia auto. All'interno si congelava, così, Tyrone, azionò il riscaldamento e in pochi minuti si riscaldò bene tutta la macchina.
Arrivammo a casa mia, ormai erano le sette passate. Lo salutai e mi diressi in cucina, perché dopo tutto quell'allenamento, non ci vedevo più dalla fame. Vidi mia mamma in cucina, indaffarata nelle faccende.
- Sono tornata!
Mia madre si spaventò e fece cadere a terra il bicchiere che aveva in mano. Le schegge andarono da tutte le parti.
- Quante volte ti ho detto di non venirmi dietro di soppiatto?
- Scusa, pensavo mi avessi sentita.
- Vai a prendere nella lavanderia la scopa.
Scesi al piano di sotto dove si trovavano un mucchio di cianfrusaglie, vecchi album di fotografie e la lavatrice.
Cercai la scopa ma non la trovai, guardai nell'armadio e infine la vidi.
Tornai al piano di sopra, passai davanti allo studio di mio padre e sentii una strana conversazione, sembrava stesse parlando con qualcuno al telefono.
- Non posso chiederle di venire, sarebbe troppo coinvolta così.
- Non mi interessa se è la cosa giusta da fare, lei è mia figlia e so cosa è giusto per lei. Stasera verrò solo io.
Prese una penna e scribacchiò qualcosa su un post-it.
Aprii leggermente la porta per vedere meglio ma scricchiolò rumorosamente.
- A dopo...
Scappai di corsa in cucina per non farmi prendere in flagrante da mio padre, ma dovevo assolutamente scoprire cosa ci fosse scritto sul bigliettino.
Mio padre entrò in cucina e sembrò scrutarmi, come se non fosse sicuro che il rumore della porta fosse stato per opera mia o per una casualità.
- Cos'è successo qui?
- Alla nostra figliola piace spaventarmi.
- Pensavo mi avesse sentito!
Continuai a pulire i cocci di vetro infranti.
Mia madre aprì il forno e uscì un dolcissimo aroma di rosmarino.
- Pollo arrosto con patate-, spiegò mia madre.
Ci accomodammo tutti a tavola e cominciammo a mangiare. Dopo la cena ci mettemmo tutti a sedere per guardare un film. Notai che mio padre continuava a controllare l'orologio, ciò significava che a momenti sarebbe andato all'appuntamento segreto e a me sarebbe rimasto poco tempo per controllare il biglietto.
Con la scusa di aver lasciato la porta aperta dello scantinato, andai nell'ufficio di mio padre e cercai ovunque il biglietto ma sembrava lo avesse già staccato dal blocchetto, così mi venne un'idea: infalai i post-it nella tasca dei jeans e andai nella mia stanza a prendere una matita. Colorai con la mina sul blocchetto e si evidenziarono delle scritte.

"Evergreen street, interno bosco. Ore 11.00".

Sapevo dove stesse andando e mancava solo un quarto d'ora alle undici. Dovevo anticiparlo per poter essere là in orario.
Ritornai al piano inferiore e avvisai mia madre e mio padre che domani avrei avuto un compito in classe, perciò sarei andataa a letto presto. Mi salutarono e mi diedero la buonanotte. Non potevo dire che non stavo bene altrimenti mia madre sarebbe venuta in camera a controllarmi.
Andai in camera mia e mi vestii pesante per uscire in quella notte nevosa. Spensi le luci e mi diressi alla porta finestra che dava sul balcone. Mi calai attentamente sul paravento e sgattaiolai via con la mia bici.
Per fortuna le strade erano state spalate, altrimenti ci avrei messo molto di più ad arrivare a casa del dottore. Bussai alla porta e pochi secondi dopo Miller aprì, sembrava vagamente confuso.
- Mio padre non sa che sono qui...
- Sono certo che non sarà contento.
- Ci dovevo essere.
- Entra.
Non appena varcai la soglia un piacevole calore mi accolse. Stavo per andarmi a sedere sul divano, quando vidi che c'era già seduta una persona. Appena la vidi mi buttai tra le sue braccia.
June sembrava nel meglio della sua forma, tutti i lividi e il sangue erano spariti.
Mi sedetti affianco a lei e le presi le mani.
- Non so cosa mi è successo, ma quella voce nella mia testa era così ammaliante che alla fine ho veduto e le ho dato retta. Ti prego, puoi perdonarmi?
- No...-, rispose con fermezza.
I miei castelli di carta crollarono, mi sentivo già a pezzi, quando aggiunse: - non ti posso perdonare, perché non c'è nulla da perdonare-, affermò col sorriso, poi mi abbracciò forte.
- Non capisco.
- Se non avessi reagito saresti morta. Io ti ho attaccato e tu ti sei difesa! Certo, avrei preferito che non mi cambiassi i connotati, però anche io al tuo posto avrei fatto di tutto per rimanere in vita.
Sono io a chiederti scusa per averti attaccata.
La abbracciai forte e cominciai a piangere.
- Allora perché non rispondevi alle mie chiamate?
- Avevo io il suo cellulare-, interruppe il dottore.
- Disse che dovevo riposarmi e stare il più calma possibile ed evitare preoccupazioni superflue-, spiegò June.
Il citofono suonò.
Non appena mio padre entrò, la linea della sua bocca si incurvò in una smorfia rabbiosa.
- Roxanne, cosa ci fai qui?!
- Ho sentito che non mi volevi qui stasera.
- E tu hai ben pensato di fare il contrario?
- È giusto che sappia come potervi potreggere domani, quando sarete vulnerabili.
- Roxanne, noi domani non saremo indifesi ma invulnerabili! E tu rimarrai a casa!
- Non puoi impedirmi di venire!
- Io sono tuo padre!- il dottore mi sembrò al quanto turbato dalla conversazione.
- James, tua figlia sta solo cercando di fare tutto ciò che è in suo potere per essere lì con voi domani, quando muterete nella vostra nuova natura. Non è detto che superiate la notte, perciò non volete che una persona che vi ami veramente sia con voi fino alla fine, piuttosto di uno sconosciuto che vi sorveglia?
Mio padre era su tutte le furie ma non replicò alla domanda. Si sedette sul divano e cominciò a scrocchiare le dite nervosamente.
- Allora, cosa stiamo aspettando?-, domandò con la voce ancora tremante di rabbia.
- Ne mancano ancora due, sono in ritardo.
Qualche minuto dopo si sentì bussare la porta.
Non appena il dottore aprì l'uscio per far accomodare i suoi ospiti l'aria gelida della notte entrò vorticando nella casa e per qualche secondo il fuoco era più vivo che mai.
Al fianco di Daniel c'erano Alec e Derek.
- E voi cosa ci fate qua?
- Aspetta, quindi il tuo ragazzo è un lupo mannaro?-, chiese mio padre.
- Noi siamo licantropi, signor Ford-, rispose Derek.
Mio padre mi guardò come se non mi riconoscesse più.
- Stiamo presenziando a questa riunione per conto del branco. Siamo una specie di ambasciatori. Mio padre e gli anziani vogliono sapere ogni cosa di quello che accadrà stasera e domani-, spiegò Alec.
Miller sembrò non amare la notizia appena ricevuta, ma si ricompose subito.
- Allora domani li terrete d'occhio con noi.
- Roxanne non può partecipare a questa cosa, è un'umana!- rispose Alec.
- È troppo pericoloso-, confermò Alec.
- Basta!-, urlai - sono stufata che tutti mi diciate cosa devo o non devo fare, come se neanche fossi qui.
Ora era la mia voce che tremava di rabbia.
Sembravano tutti delusi del loro comportamento e per un secondo ne fui felice.
Ormai mancavano venti quattr'ore alla luna piena ed in quel momento, non lo avrei mai ammesso a me stessa, ma ero eccitata da quella sensazione di pericolo mista a mistero.

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