Cap. 25

180 50 46
                                    

Ore 20:35, riesco a guardare l'orologio al polso di Luca, nonostante la vista offuscata dalle lacrime per il vento gelido che mi sferza il viso.
Stiamo vagando da quasi mezz'ora per trovare uno straccio di farmacia aperta.
Rimbalziamo tra strade che nemmeno conosco, con la speranza di trovare ancora qualche insegna verde che lampeggia accesa.

Su un viale semideserto a causa dell'ora tarda, scorgiamo in lontananza la croce intermittente che ci permetta di mettere fine a questa corsa che mi fa battere i denti.
"Aspetta qui", mi ordina Luca, mentre scende dalla moto. Si precipita in farmacia come fosse una questione di vita o di morte. Mi guardo intorno, in questo posto che non ritroverei nemmeno tra cent'anni, da sola.

Nemmeno un'anima, per strada; saranno tutti al caldo nelle proprie case, tutti tranne noi. L'unico segno di vita arriva da un locale dall'altra parte della via.
Voci maschili che si sovrappongono giungono in lontananza. La mia curiosità nel cercare di focalizzare di cosa si tratti, mi intrattiene mentre aspetto.

E poi vedo, o meglio, lo vedo: seduto ad un tavolo con altri quattro disgraziati come lui, mentre si agita e pronuncia insulti e bestemmie ad alta voce.
Un "merda", seguito da un calcio alla ruota posteriore, mi fa sobbalzare e distogliere lo sguardo: Luca, in preda ad uno dei suoi raptus, impreca verso non so chi o cosa.
"Che succede, non ha i farmaci?", chiedo.
"Sarebbe stato meglio, credimi", la sua risposta. E continuo a non capire.

"Nina, svegliati cazzo! I farmaci ci sono tutti, sono i soldi che ho a non bastare. Mi hanno chiesto la bellezza di centocinquanta mila lire, e non li ho. E per "non li ho", non intendo stasera in questo momento, ma neanche domani, dopodomani, o dopodomani ancora, fino alla fine del mese."
La sua disperazione a farmi sentire inutile, non sono d'aiuto, non posso aiutare, non guadagno e non posseggo nulla, e lui lo sa come lo so io; è solo che non riesco ad impedirmi di sentirmi così: inutile.

"Torniamo a casa, magari domani..."
"Domani cosa, Nina? Domani sarà sempre la stessa merda, non abbiamo una lira, i farmaci costano un botto e mi rifiuto di pensare che chissà come, i soldi per pagare i debiti in un modo o nell'altro si trovino, e quelli per curare mamma no."
Sta praticamente urlando, mentre gesticola per farmi capire meglio il problema, come se volesse ficcarmi la sua voce a forza, in testa.
Vorrei rassicurarlo che non c'e n'è bisogno, ma mi zittisco per evitare di diventare il suo antistress, in questo momento.

Non posso far altro che abbassare lo sguardo e sperare che non si accorga di quello che sta accadendo nel locale alle nostre spalle. Gli schiamazzi aumentano, mentre prego mentalmente che non si incuriosisca.

"Beati quelli, che non hanno problemi a cui pensare", dice accennando al locale.
"Già, beati loro", gli rispondo di rimando, con il cuore che mi fischia nelle orecchie.
"Stai tremando, andiamo va', che è meglio", e mi aiuta a salire.
La moto accesa che si prepara ad allontanarci da qui, è la sola speranza di evitare qualcosa di ben più grave della mancanza di denaro, stasera.

Tiro un sospiro di sollievo, mentre gira a largo per invertire la direzione nel ritorno. Rasenta il marciapiede, con la curiosità che gli si affaccia dentro per guardare al di là dei vetri del locale.
Si irrigidisce di colpo, lo sento proprio lì: all'altezza della bocca dello stomaco, dove ci si prepara a mandare giù i veleni, o a rigurgitarli fuori.
La moto si ferma di nuovo dall'altra parte della strada, stavolta.
Fa scattare il cavalletto e mi urla "scendi subito!".

I suoi passi irosi riecheggiano nell'aria attorno a noi, io che mi ritrovo a seguirli col cuore in gola; sto davvero tremando, ma non per il freddo, bensì per ciò che ho timore possa accadere.
Apre rumorosamente la porta del locale, mentre gli sguardi di dieci uomini seduti tutti a tavoli uguali, ci fissano.
La direzione di Luca verso uno in particolare, scagliando il casco pesantemente su carte da gioco e soldi che volano dappertutto.

Ha gli occhi puntati in quelli dell'uomo di fronte a lui.
Il silenzio che si potrebbe tagliare con un coltello avvolge la sala da gioco.
"Ti aspetto a casa", le uniche parole che si propagano nell'ambiente circostante.
Lo sguardo di sfida carico d'odio di un padre, mentre guarda suo figlio dritto in faccia; la stessa presa a schiaffi senza motivo troppe volte.

"Il tempo che finisco questa mano", il suo tono derisorio di risposta.
Guardo tutto in un angolo di quello schifo: la mancanza di rispetto verso tutti e tutto in carne ed ossa, riprende a giocare la sua partita come se nulla fosse accaduto.
"Ci vediamo a casa." ghigna, e non oso immaginare a cosa porterà l'incontro tra quei due. Oppure sì, ma mi rifiuto di accettarlo; l'ho già fatto troppe volte, in passato.

"Forza, andiamo!", l'ordine che mi scuote a muovermi, e lasciamo il disgraziato che ci ha generati, finire di giocarsi i soldi che sarebbero serviti a comprare i farmaci.
E non so per chi provare più pena, in questo momento: se per mio padre che non si cura di nessuno se non di se stesso, se per Luca, che pur di curare mamma, stasera ha girato mezza città, o per mamma; la quale non si accorge che non esiste cura al mondo migliore del liberarsi di quell'uomo in quel locale.

JosephineDove le storie prendono vita. Scoprilo ora