Cap. 10

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Sono settimane ormai. Settimane che sembro schiacciare chissà quale tasto nascosto sul mio corpo, che mi fa rivivere sempre una solita giornata come questa: stesso suono, stessa ora, stesse abitudini. E io che vago per casa tra l'assenza di Davide ed il corpo di Luca a scontrarsi con il mio, tra gli ambienti che condividiamo. Uno che si sveglia all'alba per andare a lavoro, e l'altro che si contende con me gli spazi per cercare di non tardare.

E ancora io, che corro come una forsennata in cerca di qualche briciola di tempo in più per non dover giustificare un altro ritardo a scuola.
E mamma, che è il fantasma che infesta la cucina già dalle prime ore; mamma, il caffè, e le sue odiosissime sigarette.
E il fumo che si condensa in questa stanza a dare il buongiorno ogni mattina, e mai, mai una volta che ci sia una colazione ad accoglierci.
Solo tv accesa, fumo passivo, e lei che guarda l'ennesimo telegiornale in cerca di qualche disastro che faccia apparire la nostra vita meno tragica di quel che è. Trae forza dai problemi degli altri, come se le sventure altrui riuscissero a distrarla dalla sua realtà.

E poi io che con il corpo dissolvo fumo attraversandolo in pieno. E le mani che spruzzano acqua gelida in viso per tentare di farmi apparire meno frastornata del solito. Con la spazzola che mi aiuta a domare la ribelle chioma che ho in testa nella solita coda improvvisata.
Sempre la stessa a fissarmi dallo specchio; sempre io, sempre uguale, sempre Josephine.

Un minuto prima a cercare un'identità meno anonima in un riflesso. Un minuto dopo a rovistare nell'armadio di Luca in cerca dell'ennesimo maglione da prendere in prestito senza permesso.
Una veloce occhiata ad assicurarmi che copra i punti giusti e non risalti quelli sbagliati, e mi congedo con il solito "io vado".
Le scale che volano sotto i piedi.
Le scarpe troppo logore ad affrettare i passi, e il loro consumarsi un po' di più, consumando a loro volta la strada che mi separa da scuola.

Con lo smog che respiro a pieni polmoni, mentre pedoni, moto e auto mi sfrecciano accanto; e giungo affannata anche stavolta.
Venti sguardi ammonitori puntati addosso, più uno che mi fissa in modo apatico dalla cattedra. E anche oggi mi maledico per le notti lunghe, il sonno breve, e la voglia di alzarmi pari a zero.

Odio essere al centro di attenzioni non richieste. Testa bassa, un tirato "buongiorno, scusate il ritardo", e affondo sulla sedia tra il banco e il senso di inadeguatezza che mi opprime.
Cinque ore da trascorrere a rilento con il suono della campanella che non arriva mai. E quando finalmente arriva, sembra dire "ritornate alle vostre vite", e io mi chiedo se la mia o quella degli altri.

In questo periodo mi lascio intorpidire dalla solita routine che mi annoia mortalmente. Con la passività che mi si cuce addosso, quando penso a tutto quello che mi piacerebbe fare e non riesco mai a mettere in pratica.
Ragazzi come me, che svolgono le più svariate attività sociali: fatte di sport, amicizie e passioni. Mentre io riesco solo a rintanarmi in casa tra studio, solitudine e cuffiette a riempire le stanze vuote intorno a me.

Ho pensato tante volte al canto, mi piacerebbe tanto poter seguirne un corso. Lo trovo liberatorio; è questo che faccio, quando voci di persone troppo conosciute continuano a ronzarmi in testa: le rimpiazzo urlando parole di sconosciuti lasciandole esplodere fuori da me, evitando ad altre di far implodere me stessa.

E mi vien da ridere. Rido se penso a tutte le volte che ho trovato Luca a spiarmi, per cercare di capire se quella voce fosse la mia.
E la sua faccia stranita mentre mi ascolta cantare in inglese. Quando con l'espressione si chiede come riesca, e il mio non riuscire a spiegarlo. E credo che questo faccia parte solo di un fattore uditivo. È come se mi privassi di qualsiasi filtro tra ciò che le mie orecchie percepiscono e il suono che le mie labbra emettono.

E amo questo idioma, ha il sapore di terre lontane da voler conoscere.
La sensazione di strade nuove da poter percorrere. E libertà trasognata, mentre mi immagino in qualsiasi posto che non sia qui.
E quando questo accade, sento l'anima pervasa da un ottimismo che non ho mai provato verso me stessa.

La naturalezza con la quale riesco a far combaciare il tutto, battuta da questa passione che non riesco a coltivare come voglio. Un corso non posso permettermelo, visto che i soldi non bastano mai, perché i debiti sono alla base di ogni privazione.

Questo circolo vizioso, che mi porta a fare castelli in aria solo per vederli precipitare giù, vedono i miei desideri calpestati dal senso di responsabilità che ho imparato ad avere.
Io che indosso scarpe che mi vanno sempre più strette, perché non c'è la possibilità di stare al passo con la mia crescita. Come posso anche solo pensare ad altro, quando c'è l'essenziale che manca?

Magari, basterebbe soltanto un paio di scarpe nuove per attraversare tutto questo. Sarei disposta a percorre salite a piedi nudi in cerca di un po' di buono sulla via.
Ci risiamo, l'ho fatto ancora: sono andata in cerca di cose a cui non mi è concesso arrivare. Ho tentato di volare troppo in alto con la mente, e come sempre, mi ritrovo trascinata giù dalla realtà che si aggrappa a queste scarpe troppo strette e logore. E sono le stesse che si sono viste consumare più dal tempo trascorso, che dai percorsi di chi le indossa.
E le fisso, ora, mentre le sento accompagnarmi piano per questa strada fino a casa.

JosephineDove le storie prendono vita. Scoprilo ora