Cap.9

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Porta chiusa, rumori lasciati fuori. Dentro?
Solo vapore.
L'umidità sostituisce l'aria e avvolge il piccolo posto che mi ospita.
E l'acqua, è questa che adesso scivola tra i miei capelli. Tra i pensieri che si appiccicano come pece alla schiena.
Quella che si attacca dentro e fuori, che non riesco mai a lavar via completamente.

Intorno a me il rivestimento che in questa stanza, in questo momento, sembra pianga lacrime mute per quest'ospite che passa fin troppo tempo tra le sue quattro mura.
Piange, lui, io non ci riesco.

Il pianto è quello sfogo che i miei occhi si impediscono di avere; la parte mancante di me, le lacrime.
O forse sono solo io che non mi concedo il lusso di rendere concrete le emozioni che mi si scatenano dentro.
Ogni volta che nella testa c'è una guerra imminente e fuori è l'inferno più totale.

Non so se il pianto possa risolvere qualcosa, e farlo sarebbe come ammettere che quel qualcosa sia realmente avvenuto; non sono ancora pronta ad ammettere, né a concretizzare la realtà che si respira in questo posto, e che rifuggo come posso.

E il mio non piangere è il negare l'evidenza, quell'enorme elefante rosa che si trova in ogni stanza riesco così a non vederlo.
A costo di coprire gli occhi con le mani, non voglio ascoltare la voce della realtà in cui viviamo, gridarmi in faccia che è tutto esattamente come sembra. Tutto come credo che sia, tutto come è veramente.

No! Non mi sento pronta a sentirmi sbattere in faccia le cose che vedo e che sento.
Ho bisogno, un totale bisogno di dividere le azioni audiovisive da quello che mi si scatena dentro quando ciò accade.
Il non voler ammettere di vivere in questa famiglia che in fondo famiglia non è. Di vivere con persone a cui sono legata dalla genetica e dagli eventi, ma che eviterei come posso.

Così forse, solo forse, un giorno ci risveglieremo tutti da quest'incubo collettivo in cui non riusciamo a provare nessuna emozione e sentimento costruttivo.
Per questo non mi concedo lacrime, il loro rigarmi il viso diventerebbe un inevitabile prova.
Quando scendono prima o poi bisogna asciugarle, e non voglio bagnare le mie mani con la consapevolezza che quello che provo non è frutto della mia immaginazione.

Ho invece imparato a far piangere le fontane di questa stanza; dicono che insonorizzi i suoni, lo scorrere dell'acqua.
La giusta alternativa alla musica e al mio bisogno di non sentire.
È divenuto il mio piccolo rifugio, questo posto. È qui che ho scoperto, ho scoperto mani, le mie, toccare un corpo che stento a riconoscere.
Insaponano seni che non ricordavo ci fossero, queste mani.
Fattezze da bambina mi hanno ormai abbandonata.

La donna che ho sempre sentito essere dentro, scopro esserlo divenuta anche fuori.
Sguardi per strada che con malizia osservano la ragazzina già sviluppata che gli cammina accanto.
Io che per evitarlo vesto taglie più grandi, evitando così di esaltare ciò che altre esibiscono con più sicurezza di me. Io che cerco di fuggire da tutto e tutti, non permetterei mai che sia il mio stesso corpo a tradirmi; a procurarmi attenzioni che non cerco, che non voglio.

Esco da questo vetro che mi circonda, con gocce che scivolano addosso, intente a disegnare intricati rami mentre cercano di raggiungere terra.
Aspetto, aspetto che scendano tutte e guardo: guardo il riflesso allo specchio; occhi che fissano i miei di rimando, occhi di un marrone quasi carbone. Ciglia lunghe che sfiorano sopracciglia folte. Capelli lunghi e scuri che incorniciano un normalissimo volto.
Non mi sento attraente, e di sicuro non lo sono. Per questo forse passo sin troppo inosservata a scuola; sono troppo impegnata a camuffarmi dentro anziché fuori.

Ragazze come me che ostentano una maturità che non hanno, di contro, io che pur avendola tento di nasconderlo come posso.
Sono occhi, questi, che più del trucco hanno visto l'odio ed il bruciore che può derivare anche solo provandolo, questo sentimento. E l'ho provato, altroché se l'ho provato.
Mi fisserei in questo specchio per ore nel cercare risposte a chi mi sta di fronte e non può darmele.
Risposte che avrei voluto, che ho cercato, che non ho ancora ottenuto.

Toni alterati che provengono al di là della porta, mi avvisano che il tempo di stare sola con me stessa è scaduto; sento bussare forte.
"Esco subito", rispondo. Sarà lui sicuramente, quello che non sopporta il bagno occupato. Lo stesso che non si chiede mai se noi sopportiamo anche solo la sua presenza.
Ci tratta come ospiti indesiderati in casa sua. La stessa casa che non riesce a mandare avanti come chiunque con un briciolo di responsabilità dovrebbe fare.

Mi affretto per evitare inutili discussioni, e in cucina trovo mamma, agitata come sempre.
"Cosa è successo, stavolta?", le chiedo.
"Ha dimenticato le sigarette", mi risponde lei in tono di supplica.
"Ci vado io", mi offro. Per evitare un teatrino sin troppo conosciuto. Ed ecco sul volto di mamma un po' di sollievo.

Con i capelli ancora umidi indosso la prima cosa che mi capita a tiro, senza badare all'abbinamento, più desiderosa di allontanarmi di lì che apparire.
Piove a dirotto fuori, ma non importa.
Senza ripari corro sotto questa pioggia, e anche se mi bagna fuori, spegne la rabbia che sento dentro in questo momento.
E corro, corro finchè posso, fino a che le gambe avranno forza per farlo.
E la sento, l'acqua, sento ogni suo elemento scendere piano e attraversarmi le labbra.
La sento come sento la strada che sto percorrendo; sento più lei che l'affanno.

JosephineDove le storie prendono vita. Scoprilo ora