Cap. 12

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Una corsa veloce da scuola a casa per il pranzo. Lo stesso che non ho consumato per il nervoso.
Quello che ho all'incirca da quando Sara mi ha invitata a casa sua.
Sono passati dieci giorni da allora.
Dieci giorni tra i tentativi di temporeggiare da parte mia, e la sua insistenza nel ribadire l'invito.

Mi ritrovo a pochi minuti dallo scendere in strada, e un pugno allo stomaco al posto del cibo.
Nessun particolare cambiamento per me, oggi. Solo io, vestiti troppo larghi sulle stesse scarpe di tutti i giorni.
Con un unico dettaglio in più a completare il tutto: la paura.

Tra tutti i sentimenti covati dentro, e che ho sentito accarezzare piano gli strati più superficiali di me, la paura non è tra questi. E per paura non intendo di qualcosa o qualcuno in particolare.
L'ignoto ad esempio, non l'ho mai conosciuto. Non ho ancora assaggiato il non sapere cosa aspettarmi, ed è questa la paura più grande, adesso.

Ho gustato il rancore, invece; con il suo retrogusto di ruggine. Quel sapore ferroso paragonabile solo al sangue.
L'amaro che non ti lascia, che cerchi di mandare giù e che se mai riesci a farlo, ti riempie da dentro attaccandosi come un'edera rampicante. Che sale, e sale fino a farti assaporare ancora il cosa e il perché lo hai provato.
L'odio verso chi era la causa di quest'ultimo, l'ho conosciuto.
L'amarezza di sapere di non avere possibilità di cambiare ciò che fa male, anche.
Il rimpianto per cose di cui avrei volentieri fatto a meno.
L'invidia verso chi non ha i miei stessi pensieri ad opprimerlo, ho scoperto di possederla in qualche angolo remoto di me stessa.
La freddezza che chiude dentro ermeticamente le sensazioni negative, l'ho posseduta.

Ma tra questo trovare, provare, avere, sentire, gustare e possedere, la paura non mi ha mai sfiorata sino a questo momento.
Proprio ora che sto lasciando in questa casa la vera me per andare a rincorrere chi spero di riuscire a interpretare.

Cammino tra la strada e il mio mondo a testa bassa. Pensieri a cercare in parti nascoste paure che posso aver conosciuto.
Un rapido resoconto mentale tra sentimenti avvicinabili tra loro, e scopro che la paura non fa parte del mio curriculum emotivo.
Il temere non tanto la forza umana, quanto quello che la forza di parole affilate possono causare.

Il dolore non fisico, quando quello emotivo riesce a ferire molto più a fondo.
Il buio da cui non mi nascondo più coprendomi gli occhi, da quando la notte è divenuta la mia migliore amica.

Il credere di non meritare serenità e al tempo stesso non essere meritevole di amore incondizionato.
Quello che deve, e ripeto: deve derivare dallo stesso sangue.
Quello che ogni individuo al mondo ha bisogno di ricevere nella propria esistenza.

Il calore di un abbraccio, che può lenire più ferite di qualsiasi medicina.
L'approvazione di chi vive con te tutti i santi giorni.
La rassicurazione di sentire che per qualcuno vali qualcosa.

Tra tutto questo? Nessuna paura alcuna.
Ora però, che passeggiando tra i pensieri e la strada lasciata alle spalle mi ritrovo fuori questa porta, l'unica cosa che riesco a provare è paura.

Respiro profondamente, un veloce cambio di costume e maschera al volto con mani sugli occhi di una coscienza che guarda tutto in un silenzio assordante, e suono questo maledetto campanello.

Una Sara meravigliata apre, meraviglia forse per il mantenimento della parola data, sicuro le sarò sembrata poco credibile, poche ore fa fuori scuola.

Vorrei dirle che ho fatto pari o dispari una ventina di volte, qui fuori: insicura che bussare sarebbe stata la cosa giusta.
L'istinto, almeno il mio, in qualche modo prevale su tutto. Ed eccomi a tentare un approccio con persone che non conosco minimamente.
Le stesse che non conosceranno mai la vera Josephine: quella troppo impegnata a nascondersi agli altri a causa di altri ancora.

"Accomodati", mi dice; e un timido "grazie" è l'unica cosa che riesco a dire, mentre la porta alle mie spalle si chiude lasciando fuori, al freddo sullo zerbino, la brutta copia di quella appena entrata.
Mi guarda con disapprovazione, lei.
"So benissimo che probabilmente non servirà a nulla", vorrei urlare. Ma ho bisogno, un totalizzante bisogno di sapere cosa significhi la normalità.
Vedere la libertà oltre le mie prigioni emotive. Attraversare quel sottile filo che divide in due me stessa. Amalgamare realtà e finzione per qualche ora di serenità.

Non nuocerà a nessuno se non a me stessa, al massimo ne uscirò un po' più distrutta.
Cosa potrà mai essere una caduta consapevole, rispetto all'essere spinta giù contro la propria volontà?
Però quanta voglia ho di fare marcia indietro salendo queste scale, ma al mondo non posso più nascondere la mia esistenza; lo faccio già da troppo ormai.

Rifuggo gli sguardi.
Evito gli altri.
Allontano parole.
Calpesto emozioni.
Scappo dai sentimenti.
Mi nascondo: da me.

JosephineDove le storie prendono vita. Scoprilo ora