Cap. 24

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"Mamma, ci sei?", il richiamo di Luca.
La conferma di ogni sera, prima di salire a casa da lavoro; l'attesa di una risposta, a bloccarlo in fondo alle scale.
"Luca, sono qui", e mamma, a dargli l'unico motivo per rientrare in questa casa.

Vivono in simbiosi l'uno con l'altra senza nemmeno badarci. Non si rendono minimamente conto, e questo mi fa sorridere, mentre ascolto i passi di Luca che avanza lungo le scale.
"Sicura che hanno reciso il cordone ombelicale, quell'Aprile del 78?", chiedo ridendo. E lei che intenta a preparare la cena, fa spallucce perché non sa che dire.
"Tu che dici?", nemmeno ci penso, "io dico di no." E di spalle la sento sorridere scuotendo la testa.

"Ciao ma'!", è l'unico saluto di Luca, quando entra; ormai non ci faccio nemmeno più caso, l'abitudine tende a far questo. Abbandono lo scalino del bagno, per andarmene in camera ad aspettare sia pronto in tavola.

"Cos'è questa lista?", e mi accorgo di essermi bloccata tra il corridoio e la cucina. Trattengo il fiato mentre attendo la risposta di mamma alla sua domanda.
Conto mentalmente i secondi che passano, mentre la sua debole voce dice "nulla, non preoccuparti, sono solo i farmaci che mi ha prescritto il dottor Martini", smetto di contare, ma di respirare non se ne parla.
"Allora era per oggi, la visita? E perché non mi hai detto nulla? Avrei chiesto un permesso al lavoro per accompagnarti." Silenzio.

"Ma no, non preoccuparti, ho chiesto a Nina.", sta cercando di deviare la sua curiosità, lo so. Intanto, immagino Luca seduto sulle poltroncine in sala d'attesa, che si mastica i denti con la vena che gli pulsa nelle tempie, e lo sguardo assassino rivolto al medico e alla sua assistente.
"Cosa ha detto, comunque?", ancora silenzio, in cucina; ancora nessun respiro, in corridoio, per me.

Decido di rientrare per cercare di distrarlo, ma la vedo dura; non percepisce la mia presenza già di suo, figurarsi se la sua attenzione è rivolta tutta a mamma.
Si gira lentamente per poterlo guardare bene negli occhi, non le servirà a nulla mentire, lo sa.

"Ho un po' di depressione", sento dire per la seconda volta, oggi. Adesso è Luca a non respirare, e forse neanche se ne è accorto. Ha lo sguardo appannato che ho avuto la fortuna di vedere poche volte.

"E quel mezzo chilometro di carta scritta, sono i farmaci", precisa.
"Sì, ma al momento non li prendo", e in un secondo la fissiamo come a chiedere il perché.
È Luca a parlare per entrambi: "come mai? Se sono stati prescritti, vuol dire che ne hai bisogno, o sbaglio?".

"Certo che mi servono, ma per ora abbiamo più bisogno di mangiare, che dei farmaci."
"Continuo a non capire", insiste lui. Per fargli pronunciare proprio ciò che lei non vuole.

"Non c'è nulla da capire, Luca; la visita già mi è costata tantissimo, e non possiamo permetterci anche i farmaci".
L'immagine di poco fa di lui nella sala d'attesa, mi si materializza davanti: mandibola serrata, vena che pulsa e sguardo omicida tutto in uno.

Un attimo dopo, strappa la lista del medico per metterla nella tasca interna del suo giubbotto.
Si gira di scatto verso di me con gli occhi che sputano disappunto in tutte le direzioni: "tu, metti la giacca e vieni con me".

"Ma è quasi pronta la cena, dove andate?", sento dirle.
"Fanculo la cena, andiamo", abbaia. E con un cenno di testa mi dice di seguirlo senza aggiungere altro.
E ritrovo lo stesso freddo di poche ore fa, in strada. La stessa aria gelida che graffia il viso, insieme alla moto su cui non sono più salita, da quella sera di novembre.
Ho mani in tasca e gambe che sfregano l'un l'altra, nel tentativo di riscaldarle.
"Ma tu, cappello e guanti mai?", mi ammonisce, mentre accende il motore.
"Attaccati a me, così almeno ti ripari un po' dal vento", e mi ritrovo ad abbracciare di nuovo mio fratello, e chissà perché, mai in un buon momento.

JosephineDove le storie prendono vita. Scoprilo ora