Capitolo 19 "Sofferenza"

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Vengo svegliato da un rumore terribile, che mi porta a spalancare gli occhi. Il mio corpo è ancora indolenzito, entrambi miei arti formicolano e sono addormentati. La testa mi scoppia e le orecchie mi fischiano, mi sento tremendamente stordito, e non ho idea di dove mi trovo.
La luce si insinua attraverso delle sbarre, davanti a me: mi accorgo di essere dentro a una cella.
Ho appena il tempo di ripensare a ciò che è successo e a rabbrividire, che sento di nuovo quel rumore. No, non è un rumore. È un verso. No, non è un verso. È un urlo umano. Straziante. Da far accapponare la pelle.
"Helya, Helya!" Urlo con tutta la voce che riesco a trovare, trascinandomi verso le sbarre e afferrandole.
"FATEMI USCIRE DA QUI!"
A rispondermi, solo urla. Provengono da un'altra stanza, ma sono talmente forti da permettere di essere udite anche da qui. Comincio a tirare pugni a quelle sbarre:"Fatemi uscire! Vi prego! Helya! Helya! Helya!!!"

"È tutto inutile, se fai casino tortureranno anche te."

Vedo qualcuno comparire davanti a me. Un momento, ma...sono io. La voce appartiene a quella figura. Ma quello sono io!
"Torturare?"
"Esattamente, Dean, e tu non puoi fare niente."
"QUELLE URLA SONO VERAMENTE DI HELYA?!" Gli urlo conto, come se volessi addossare la colpa alla figura di me stesso.
"Oh, non stupirti, lo sapevi benissimo."
"Devi aiutarmi ad uscire da qui! Devo salvarlo!"
"Ma io sono te stesso, Dean, te ne sei dimenticato? Te l'ho già detto, non puoi fare nulla."
"No, ti prego! Ti prego!"
"Nulla..."
"Aiuto! Vi prego, qualcuno mi aiuti!"
"Nulla..."
"Vi prego...aiuto..."
"Nulla."
La figura scompare, ma la sua voce continua a ronzarmi in testa.
Ad un tratto, però, una porta si spalanca nella penombra, con un ciglolio. È come un déjà-vu: l'incubo che passai non molto tempo fa, incatenato a una sedia, nell'attesa che qualcuno facesse qualcosa, adesso mi sembra di riviverlo. Solo che adesso forse non rivedrò mai più la luce del sole.
Un uomo dal volto talmente inespressivo da sembrare una maschera, si avvicina alla mia cella, e tramite un codice digitato in un pannello, la apre.
Non dice una parola, mi afferra per un braccio, e mi trascina chissà dove: percorriamo un corridoio buio, illuminato solo da delle minuscole finestre attraverso le quali filtra una luce debolissima. Poi, attraverso una porta di metallo pesante, simili a quelle che si trovano nei carceri, entriamo in una stanza spoglia, priva di mobilia o qualsiasi altro arredamento, al centro della quale vi è una sola sedia, illuminata da un piccolo faretto sul soffitto; c'è un uomo incatenato ad essa: è chinato su se stesso, in modo tale da non mostrare il viso. Sotto di lui, una pozza di sangue. Riconosco i suoi capelli, e stento a credere che tutto quel sangue sia il suo. Mi sento quasi svenire dallo shock.
"Dato che non vuoi proprio parlare, nonostante ti stia rimescolando le viscere in quel tuo corpo schifoso da essere ripugnante quale sei, vediamo se costringendo il tuo amichetto a guardare cambi idea. Se non basta nemmeno questo, allora tortureremo anche lui." Grugnisce l'uomo.
Helya alza leggermente il capo, tremante. La visione del suo volto è talmente traumatica che credo non la dimenticherò mai: il suo viso è gonfio, pieno di lividi sugli zigomi, intorno agli occhi, sulla fronte. Gli occhi iniettati di sangue e sofferenza, sono rossi quasi quanto il sangue sul pavimento. Le labbra violacee, spaccate e ancora sanguinanti.
Riabbassa la testa, come in preda alla vergogna.
Sono pietrificato. Impotente. Non posso fare niente. Credo di sentirmi male come non mi sono mai sentito in tutta la mia vita. Mi salgono i conati, e vomito direttamente sul pavimento.
L'odore si fa nauseante, insostenibile. Un miscuglio di sangue e vomito.
L'uomo afferra una siringa, e senza alcuna delicatezza la infilza direttamente nel collo di Helya, iniettandogli tutto il liquido al suo interno. Poi, le getta via, e afferra un ferro rovente:
"Andiamoci piano, per il momento. Adesso te lo ripeto: dov'è Christina?" A quella frase, spinge direttamente nella sua carne il ferro rovente. Helya urla, ma non dice una parola.
L'uomo non molla, ripete l'operazione più e più volte. Helya è muto come una tomba.
Non so che cosa mi permette di continuare a guardare. Sono talmente scioccato che rimango fermo immobile, inerme.
"Dicono che il corpo di voi Non-morti sia molto più sensibile al dolore. Posso andare avanti fino all'infinito, tanto non muori. Che cosa aspetti a mollare?"
Lui continua a non parlare.
Improvvisamente, proprio accanto ad Helya, spunta di nuovo quella figura. Io. Me stesso. Ho un sorrisetto stampato sulla faccia, e accarezzo il suo volto.
"Guarda che cosa hai fatto."

"Non sono stato io. Non è colpa mia!"

"Sì invece. È tutta colpa tua.

Della tua inutilità.

È colpa tua se adesso lui è qui. Se avessi lasciato che quel giorno lui sparasse a quella donna, adesso non sareste qui."

"Non è così! Non è così! Non è così!"

"Non puoi negarlo a te stesso."

"Cosa dovrei fare?! Che cosa posso fare?!"

"Te l'ho già detto. Niente."

"Non è vero, stai mentendo! Ci deve essere qualcosa che posso fare!"

"Ti ho già detto anche questo: cambiare."

La figura di me stesso scompare.

"Parlate anche da soli voi fecce?" L'uomo fa una faccia disgustata e sprezzante, poi afferra dal ripiano altri utensili affilati. Sembra indeciso tra una pinza o una lama affilata, ma alla fine opta per quest'ultima.
La infilza senza pietà all'altezza delle costole di Helya.
"DOV'È CHRISTINA? DOVE LA NASCONDI? DIMMELO, LO SO CHE LO SAI!"
Lui tace.
"Sono una persona molto paziente ed elastica. Ti dò un'ora di tempo di riflessione. Dopodiché comincerò a far seriamente male al tuo amico mentalmente instabile. A te la scelta. Vi lascio soli."
L'uomo si allontana ed esce dalla stanza sbattendo la porta alle sue spalle.
Rimango così. A pochi metri da lui. Muovo un passo verso di lui.
"Non avvicinarti." Sbotta, senza neanche alzare la testa.
"Helya, sono solo io." Muovo un altro passo verso di lui.
"Va' via!" Helya si rannicchia su se stesso cominciando a tremare.
Tuttavia, continuo ad avazare. Gli sposto delle ciocche unte da davanti la faccia. Ha uno spasmo, come istintivo, e si allontana.
"Non mi toccare!" Esclama, in tono folle. Continua a tremare.
"Uccidimi. Uccidimi, ti prego. Non farmi altro male. Uccidimi, uccidimi, uccidimi."
Il mio sguardo si sofferma sulla sua schiena: il suo tatuaggio è stato completamente scorticato. La pelle non c'è più.
"Potresti perderlo.

L'hai già fatto."

"Helya, guardami!" Gli prendo il volto tra le mani: la sua espressione è quella di un animale spaventato, che si sente in pericolo.
"Davvero non mi riconosci?"
"Lasciami! Va' via. Non so niente, non so niente, non so niente. Non ti servo. Uccidimi, uccidimi, uccidimi! Non ti servo, uccidimi!"
"Che cosa ti hanno fatto...?

Che cosa ti ho fatto...?

Perdonami. È colpa mia."
Sono diventato un estraneo. Mi hanno strappato via Helya, hanno risucchiato tutta la sanità mentale che aveva fino a ridurla pari a 0. Forse sta accadendo anche a me. Sento voci, vedo me stesso che mi rimprovera.
Tra poco mi ridurranno come lui. Sicuramente ci vorrà molto di meno.
Non voglio.
Non voglio.
Non voglio!
"Mi dispiace..." Gli sussurro. Sfioro appena la sue labbra martoriate con le mie. Mi lasciano in bocca il sapore del sangue.

"D-D...De...Dean..." Mormora.
"Sì, sono io! Helya, sono qui!"
"Ti prego...Lascia stare Dean..."
"Sono io Dean! Io, sono qua, davanti a te!"
"Lui non...c'entra...niente con questa storia... Ti prego, non fargli del male, ti supplico."



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