44. Il consiglio

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Ollie

Secondo David, ero io il più saggio del gruppo.

Ma era come dire che il cane più pulito di un canile abbandonato avesse le pulci.

Nonostante Ben cercasse di aggiudicarsi continuamente questo ruolo, dispensando massime di dubbia etica morale, finiva sempre per fare cazzate che poi, non contento, proponeva agli altri con soddisfazione tale da riuscire a convincerli, il più delle volte.

Noah, invece, conosceva molto bene il significato del termine. Per questo, la evitava come la peste.

Forse, il più saggio era proprio David, anche se non lo avrebbe mai ammesso. Eppure, era lui che, da due anni a questa parte, continuava a fare una serie di scelte giuste, come quella di raggiungere Beatrice a Roma, stare con lei, sposarla e costruire insieme la vita che entrambi meritavano.

A detta sua, possedevo una strana bussola morale che mi permetteva di evitare di fare le cazzate più stupide.

Come se esistessero cazzate intelligenti...

Esisteva per davvero una gerarchia degli sbagli? Una piramide degli errori in cui, più sali di altitudine, più sei fottuto?

Perché, se fosse esistita, io avevo appena scalato la vetta.

Avevo baciato Emma, l'avevo portata nel mio studio con una scusa ridicola, mi ero fatto tatuare una farfalla nel basso ventre solo per avere le sue mani addosso e poi, bandierina sulla cima, mi ero fatto inghiottire dal suo sapore.

La vita mi aveva promosso da Principe delle Tenebre a Re delle Cazzate.

Seduto a uno dei tanti tavolini del campus, osservavo David parlare al telefono. Quel pomeriggio, avevo annullato gli appuntamenti e guidato fino alla UCLA, l'università in cui aveva ripreso a lavorare David.

«Tutto bene?». Gli chiesi, una volta tornato a sedere di fronte a me.

«Sì. È Beatrice». Mi spiegò ricacciando il telefono in tasca. «Mi sta addosso per questa storia dell'arredamento della casa. Questa volta, devo scegliere le venature del parquet. Non ha capito che scelgo senza consapevolezza. Butto a caso, quello che mi ispira di più! Se continua a darmi retta, ci ritroveremo la casa di Arlecchino».

«State bene». Mi limitai ad asserire.

David sorrise soddisfatto. «Sì, stiamo bene. Tu, invece?». Mi chiese con cautela.

«Emma mi sta sempre appiccicata».

Mezza verità. Ultimamente, ero io a starle un po' troppo appiccicato.

«Sì, vero. E ti dispiace?».

«Quando sono con lei, mi sento meno avanzo di galera». Confessai.

«Non sei un avanzo di galera, Ollie».

«Mi ha fatto un tatuaggio».

Ormai ero partito con le confessioni e avevo paura di non riuscire più a fermarmi.

David aggrottò la fronte e mi guardò confuso. «È un nome in codice per pompino?».

Sospirai, prima di alzarmi e abbassarmi i jeans quel tanto che bastava a far scorgere quelle linee nere e pastrocchiate.

«Cazzo, Ollie!». Esclamò continuando a osservare quella maledetta farfalla stilizzata. «Ma è una farfalla...».

David era sinceramente sorpreso e lo capivo.

«Sulla sua lista c'era scritto farsi un tatuaggio». Alzai l'orlo dei jeans e ripresi posto. «Ma, visto che lei non può, l'ha fatto a me. Solo che poi è finita lei sulla poltrona, a gambe aperte. Mi ha supplicato di farlo con lei».

Come le ali di una farfallaDove le storie prendono vita. Scoprilo ora