7. I buoni propositi

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Ollie

Mi ero ripromesso che non sarei più tornato.

Odiavo gli ospedali e l'assicurazione sanitaria che potevo permettermi era d'accordo con me: più me ne tenevo a distanza, meglio era. Sarebbe stato meglio morire dissanguato per il morso di uno squalo che pagare le spese sanitarie di un ricovero o un intervento.

Fortunatamente, l'erba cattiva non muore mai.

Infatti, godevo di ottima salute.

Diverso era per Emma Cooper, l'altro motivo per cui mi ero ripromesso di non tornare. Probabilmente, l'assicurazione sanitaria della sua famiglia sarebbe bastata a coprire le spese sanitarie dei pazienti di tutto il reparto.

Inoltre, Emma Cooper aveva confessato di avere una cotta per me. Lo aveva fatto ricoprendosi di ridicolo e farneticando ai limiti dello stalking.

Uscito da quella stanza, dentro cui mi ero intrufolato di notte ben oltre gli orari di visita, mi ero ripromesso che non sarei più tornato perché, in fin dei conti, di quella strana ragazza dai gusti alquanto discutibili in fatto di ragazzi non mi importava niente.

Ognuno è responsabile delle proprie azioni e io non avevo colpe se lei aveva deciso di mettersi in mezzo beccandosi un pugno in pieno viso, a maggior ragione se lo aveva fatto perché voleva scoparmi.

Emma Cooper era una sciocca ragazzina ricca, probabilmente viziata, ingiustamente malata e a me non interessava.

C'era un forte odore di disinfettante e la luce fredda dei neon al soffitto rifletteva sul linoleum verde del pavimento.

Da piccolo, chiesi a mia madre perché gli ospedali fossero così deprimenti. Non riuscivo a comprenderne la ragione: la gente entrava malata e usciva guarita. Come minimo, tra i corridoi si doveva respirare la vita. Lei mi rispose che la gente entrava malata, soffriva tremendamente e per lunghi periodi ma non sempre usciva. Fu così che capii che tra i corridoi si respirava odore di morte, altro che di vita.

Mi sentii stupido, anche se avevo quattro anni e la domanda era più che lecita visto che sorgeva applicando un semplice concetto di logica empirica. Allora mi ripromisi che, prima di fare una domanda, avrei sempre analizzato la questione sotto tutti i punti di vista.

Alla fine, smisi proprio di farne, perché tutte le domande che mi sarebbero venute in mente negli anni a seguire erano così tremendamente sbagliate che nessun adulto avrebbe potuto fornirmi un altro punto di vista per analizzarle.

Quel giorno, invece, seduto scomodamente su una delle sedie di un corridoio nascosto grazie al quale mi tenevo a debita distanza dalla stanza di Emma Cooper, respiravo l'odore della scelta sbagliata che stavo facendo.

Un ragazzino, seduto nella fila di sedie di fronte la mia, mi stava fissando. Aveva le braccia conserte e fingeva un'aria da duro. Lo ignorai per un po' ma poi iniziò a darmi fastidio, soprattutto perché non prestava attenzione alle notifiche che arrivavano a raffica sul telefono abbandonato sulla sedia accanto alla sua pur di impegnarsi a guardarmi male.

O almeno ci provava. Era vestito troppo bene per essere uno di quei ragazzini in cerca di guai con tipi come me. Era firmato dalla testa ai piedi e aveva un viso pulito, praticamente il figlio di qualche riccone.

«Che vuoi?». Domandai con tono annoiato.

«Tu sei quello che ha spedito mia sorella all'ospedale?». Rispose dopo una lunga pausa e la voce con cui parlò mi confermò che quel ragazzino era tutto fuorché una minaccia.

La domanda gli uscì comandata da un'inflessione curiosa, lontana anni luce dal tono minaccioso con cui lo avrei chiesto io, se si fosse trattato di mia sorella.

Come le ali di una farfallaDove le storie prendono vita. Scoprilo ora