3. Il pugno

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Emma

Del mio carceriere non c'era traccia, ma percorsi lo stesso il viale di casa con passo sostenuto.

Se avessi scorto la macchina di mia madre di ritorno dal lavoro, mi sarei buttata in una delle aiuole che lo costeggiavano pur di nascondermi.

Sarei andata a quella festa a tutti i costi.

Shinhai mi stava aspettando appena fuori il cancello.

Prima di salire in macchina, buttai un occhio alla casa dove le luci accese potevano suggerirmi dove si trovassero i suoi abitanti. Mio padre era ancora nel suo studio, mio fratello nella sua camera - probabilmente a escogitare piani per conquistare il mondo - i miei nonni in cucina e Tamara nella stanza che avevamo adibito a palestra, una volta arginate le resistenze di mia madre.

Le luci del soggiorno erano, invece, spente proprio come quelle della mia stanza, anche se da qua era impossibile scorgerle. La finestra della mia camera affacciava dall'altra parte: ottimo deterrente per ritardare il momento in cui mia madre si sarebbe accorta della mia assenza giustificata ma non da lei.

Entrai in macchina esalando un sospiro di sollievo.

«Ma come ti sei vestita?». La mia amica mi stava guardando con la tipica espressione del ribrezzo, che ormai conoscevo fin troppo bene. «Sembra che tu sia stata defecata da un Teletubbies!».

Adoravo Shinhai. Adoravo soprattutto la sua espressività che la rendeva l'eccezione che conferma la regola secondo cui i giapponesi sono inespressivi.

Aveva un dono: quello di muovere le sopracciglia con una maestria tale da impersonificare la gamma completa di emozioni proprie del genere umano.

Mi sistemai nel sedile e mi tolsi la tracolla fuxia. «Mi sono preparata all'eventualità molto remota che Ollie possa fare un salto alla festa. Penelope ci sarà. L'ho visto dalle sue storie».

«Quindi ora stalkeri anche la sua famiglia?».

«E i suoi amici». Aggiunsi mentre allacciavo la cintura.

«Hai provato a scriverti a tinder canadese? Avresti più probabilità di finire con un manzo di Toronto che pesca a petto nudo trote e carpe vestito solo di calosce».

Abbassai lo sguardo sulla gonna bianca lunga, sulla cinta di seta a fantasia floreale e sul top giallo che indossavo.

«È tanto critica la situazione?». Le chiesi indicando con l'indice i miei indumenti.

«Il livello massimo di criticità lo abbiamo superato già da un pezzo!». Sospirai. «Ma, ehi, vedila così: se mai ci sarà e se mai ti degnerà di uno sguardo, rimarrai sempre la ragazza che ha rischiato di accecarlo. Brilli di luce propria e non perché sei una stella ma perché hai indossato un cavolo di catarifrangente al posto del top!».

Shinhai mise in moto e partì. Ci lasciammo così alle spalle la mia casa, la mia famiglia e il buon gusto che, come ripeteva sempre, mi aveva abbandonato ancor prima che nascessi.

Se le tinte con cui io amavo vestirmi erano quelle primaverili dei colori pastello, quelle con cui amava vestirsi Shinhai erano quelle invernali, di un inverno rigido e tagliente, che in confronto Grande Inverno era un hotel di lusso a cinque stelle alle Bahamas.

Lei vestiva solo di nero e grigio e ogni tanto di rosso, quando si sentiva particolarmente ispirata, non come quella sera. Quella sera era più rassegnata che ispirata, visto che l'avevo costretta ad accompagnarmi. Per questo, indossava un abito grigio scuro che fasciava alla perfezione il suo corpo da ex ballerina di danza classica.

Come le ali di una farfallaDove le storie prendono vita. Scoprilo ora