15 - Il sogno

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Emma

«Ho fatto un sogno». Confessai alla mia amica attraverso l'altoparlante del telefono.

Ero sdraiata sul letto con la gambe sollevate lungo il muro e lo sguardo perso nella miriade di stelle stickers che tappezzavano il soffitto della mia camera pronte a risplendere quando sarebbe calata la notte e la stanza sarebbe stata avvolta nel buio.

«Sentiamo». Mi esortò Shinhai mentre trafficava con la spesa che stava sistemando nella cucina.

La madre la costringeva a essere responsabile e questo voleva dire anche provvedere da sola a comprarsi gli alimenti consentiti dalla sua alimentazione vegana.

«Ero seduta su uno sgabello, completamente nuda, con solo una chitarra classica a coprirmi le parti intime».

«Una chitarra? Ma tu non sai suonarla». Mi accusò Shinhai.

«È un sogno, Shinhai, e nei sogni puoi essere e fare di tutto. Comunque, fammi andare avanti. Era seduta nuda con questa chitarra che stavo suonando divinamente».

«Costa stavi suonando?».

«Ora ci arrivo! Dammi il tempo...». La rimproverai.

«Okay, scusa...».

«Allora, ero nuda su uno sgabello a suonare e cantare Quelqu'un qui m'a dit di Carla Bruni. La mia pelle era perfetta, liscia e seducente proprio come quella sua e indovina chi mi stava ascoltando completamente assorto?».

«Ti prego... NO».

Annuii anche se Shinhai non poteva vedermi. «Sì, Ollie. Ed era completamente nudo anche lui!».

Era stato un sogno bellissimo, soprattutto perché dopo aver finito l'amplesso con la chitarra avevamo iniziato un altro tipo di amplesso e il sogno si era fatto decisamente più spinto...

«Tu non stai bene, Emma. E non lo dico perché ti sogni Ollie nudo a notti alterne ma perché... Carla Bruni? Veramente?».

«È una bellissima canzone». Mi giustificai.

Quando sentii la madre di Shinhai chiamarla a gran voce, capii che il nostro tempo a disposizione era finito. Guardai lo schermo del telefono: eravamo state quasi due ore al telefono. Ma ora lei doveva aiutare la madre a preparare la cena, perché i suoi cugini giapponesi erano venuti a trovarli e lei e i suoi genitori dovevano sforzarsi di non sembrare più americani di quanto fosse loro consentito.

«Devo andare. Non ti cacciare nei guai e non fare stronzate... Ehm, pazzie. Scusa, mamma!».

Ridacchiai e poi la salutai anche io.

Lanciai il telefono sul letto e sospirai di noia. Ero stata tutto il giorno a casa perché il mio carceriere non mi aveva accordato il permesso di uscire, visto che oggi il negozio di Divine era chiuso.

Miracolosamente, ieri sera, ero riuscita a tornare a casa sana e salva, accompagnata da Tamara che mi aveva retto il gioco per tutto il tempo. Così, mia madre non aveva scoperto che ero stata a una festa in spiaggia alle Palafitte. Così, le mie finestre ancora non erano state sbarrate.

Con We fell in love in October nelle orecchie, non riuscivo a smettere di pensare a Ollie.

Occupava sempre un pensiero fisso nella mia testa e, quando accadeva che lo vedessi di persona, quel pensiero finiva ad occupare anche tutti gli altri rendendolo non solo il mio chiodo fisso, ma l'intera parete su cui avrei perso il mio sguardo al solo scopo di non ritrovarlo più. Ma, quando una testolina sbucò da sopra il materasso del mio letto, fui costretta a riappropriarmene controvoglia.

Come le ali di una farfallaDove le storie prendono vita. Scoprilo ora