Alice (I)

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Attenzione: si segnala che il capitolo, anche se non in questa prima parte, contiene qualche scena un po' pesante. D'accordo che oggi tutti scrivono di tutto senza farsi problemi, ma ci tengo a segnalare che potrebbe urtare la sensibilità di alcuni lettori.


Il telefono di Biagio è staccato, due squilli e la signorina della Vodafone fa partire la segreteria. Una voce che scotta i timpani, un silenzio che aumenta la salivazione, i nervi che tremano. E quelle parole – Grazie e scusa – che continuano a baluginarmi davanti agli occhi, una scritta in un grassetto così spesso da eclissare il K2, gli studenti in festa, Zeno, forse ancora qui con me.

«Nina, va tutto bene?» La domanda lo conferma: è qui. Giro il telefono perché legga il testo del messaggio.

«Grazie e scusa» ripete. Un coltello nelle orecchie. «Perché agitarsi per una frase simile? A me sembra gentile, se qualcuno ti ha fatto un torto.»

Un torto. Biagio non me l'ha fatto, ma adesso sì, capisco tutto, come se stessi contemplando i destini che Dio ha tessuto per ognuno di noi.

«È un messaggio d'addio.» Le corde vocali rendono la voce roca. «Lui sta per...»

Adocchio l'orologio dietro le file di birra, mezzanotte e quattro. Forse se corro, ma non ho l'auto, non sono Superman, solo un'inutile umana che non può piegare le leggi spazio-temporali.

«Sei in macchina?» chiedo a Zeno.

«Sì.»

«Veloce! Dammi le chiavi!»

«Che cos'è successo?»

Odio la sua mente limitata, la necessità di incaponirsi adesso, quando il flusso del tempo è un razzo che non posso bloccare, colliderà contro l'asteroide prima che prema il pulsante d'arresto. Mezzanotte e cinque, e a ogni ticchettio un minuto in meno per salvarlo.

Il portachiavi con il toro sbuca dalla tasca dei suoi jeans. Ribrezzo, l'idea di toccarlo. Freddo, ho dimenticato il cappotto. Fiato grosso, corro per le vie di Nomi in cerca della Panda, parcheggiata chissà dove. Dieci minuti, troppi chilometri che mi dividono da casa, cinquanta, e Dio che ha velocizzato lo scorrere del tempo. O sono più lenta io?

Ecco, l'auto! Chiave nella serratura, buco mancato, riga su carrozzeria, di getto sul sedile e via, portiera mezza aperta, aria di dicembre che mi pugnala la pelle.

«Non farlo. Ti prego, dimmi che non l'hai già fatto.»

Una mano sul volante, gioco di piedi, acceleratore, frizione, mai il freno, il freno rallenta e io, cazzo, non ho tempo. Colpo di clacson, merda, levati dalla strada, stronzo. E via, a tutta birra, lancetta della benzina in zona rossa, e Dio che oggi mi odia, mi odia davvero. Sterzo in quinta, sorpasso di motorino e l'altra mano che cerca il tasto chiama.

«Biagio, rispondi. Rispondi, ti prego.»

Caccio indietro le lacrime, piangere rallenta, pensare rallenta. Meno quaranta chilometri. Chiamare qualcuno, chiedo solo un'altra possibilità, di salvarlo, di non costringermi a odiare me stessa per non avere capito prima.

«Anna! Sono Nina. Accendi questo cazzo di telefono. Merda la segreteria! Svegliati, va' da Biagio.»

Le ruote mangiano chilometri di asfalto e la spia della benzina pulsa, tanfo di gomme bruciate e fumo di motore.

Vecchio catorcio, non mi lasciare.

Il telefono squilla:

«Marco, Marco devi fare qualcosa! Corri da Biagio!»

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