Capitolo 8 - Fantasmi dal passato

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Nat firmò dov'era necessario e si lasciò condurre dalla guardia di turno, una mano sulla sua schiena.

Quel posto puzzava di chiuso. Il cemento rendeva l'aria fredda, accompagnato dall'aria condizionata. Il corpo di Nathalie era un fascio di nervi.

Era lì perché lo voleva. Perché non poteva fingere che quella parte della sua vita non esistesse.

La donna in uniforme aprì la porta per lei e l'accompagnò dentro. Intorno a lei, vetri divisori tenevano lontani i detenuti dai loro visitatori. Le fu indicato il suo posto per quella visita. Nat si sedette e poggiò i gomiti sul piano, il cuore martellava nella cassa toracica.

Un rumore, sbarre che si aprivano. Due guardie tolsero le manette a un uomo e gli ordinarono di sedersi. Nat lo fissò oltre il vetro. Un metro e ottantasette, occhiali quadrati, capelli e barba biondi, occhi chiari e svariati tatuaggi sulle braccia.

Era così l'ultima volta che si erano incontrati? Quand'era stato? Non se lo ricordava.

Seduti uno di fronte all'altro, presero i rispettivi telefoni con cornetta. Il carcerato ci mise qualche secondo a riconoscere la ragazza e i suoi occhi si inumidirono. «Sei veramente tu?»

Nat si impedì di provare alcunché. «Ciao, papà».

Lui allungò la mano, come a farle una carezza attraverso il materiale lucido e trasparente. «Sei bellissima. L'ultima volta che ti ho vista riuscivo a tenerti in braccio usando solo il destro. Hai fatto un lungo viaggio per venire a trovarmi?»

Lei inspirò, quasi sperando di percepire l'odore di lui che sentiva un tempo. Lucido da scarpe, dopobarba, tabacco di seconda mano. Se avesse risentito i suoi abbracci, il suo profumo, avrebbe ricordato di più?

«Non è servito. Viviamo qui ora».

Corrugò la fronte. «Cosa? Ma tua madre...»

«Abbiamo dovuto traslocare, di nuovo. Ho proposto io Milton».

Suo padre si allontanò dal vetro, girando leggermente con quella sottospecie di sgabello. «Hai scoperto che mi hanno trasferito a causa del sovraffollamento nei carceri di Boston e ne hai approfittato. Tua madre non sa che sei qui». Non era una domanda.

«La conosci meglio di me, sai che è impossibile farla ragionare».

Sotto la barba corta, lui sorrise. Nathalie lo ricordò in più versioni. Esagerato, la mattina di Natale. Commosso, durante i suoi saggi di danza classica. Triste, quando sua madre si esprimeva in giudizi poco graditi.

«Quello che hai fatto è abominevole, ma sei sempre mio padre. Non avrebbe dovuto impedirmi di vederti».

Si indicò col pollice. «Sono stato io. Le ho detto io, anni fa, di portarti lontana da Boston. Lontana da me. Volevo proteggerti».

Nat pensò intendesse dallo scandalo.

«Perché avete traslocato ancora?»

Sapeva che l'avrebbe chiesto. Aveva imparato a mentire nelle ultime settimane quando le chiedevano che ci facesse a Milton. Per via del lavoro di sua madre, perché mancava loro il Massachusetts, per motivi economici.

Le lacrime le annebbiarono la vista.

«Ehi». Si sporse verso di lei e avrebbe voluto frantumare il vetro per stringerla.

Non se la sentiva di mentirgli. «Ho fatto una cosa brutta, papà».

Definirla "brutta" era il minimo. Atroce, imperdonabile, mostruosa.

Lui negò col capo. «No, non la mia bambina. Qualunque cosa sia, non può essere peggio di quello che ho fatto io. Puoi dirmelo».

Si sarebbe ricreduto. «Ho ucciso un ragazzo».

UNAPOLOGETICWhere stories live. Discover now