Capitolo 1 - Benvenuti alla Milton High School

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Sei mesi dopo


Profilo basso. Non farsi notare. Così si era messa d'accordo con sua madre. Non doveva accadere quello che era capitato l'anno prima. Stavolta niente distrazioni.

Avery non è mai stato una distrazione.

Inspirare. Uno, due, tre. Espirare. Facile.

Poteva farcela. Era sveglia e caparbia. Poteva sopravvivere.

Era l'ultimo anno di liceo, nuova scuola e nuovo Stato. Quanto poteva essere difficile?

Nat mantenne le mani sul volante della sua Bugatti grigia, studiando i ragazzi che entravano nell'edificio scolastico, come fossero il suo prossimo argomento per una ricerca di Biologia.

Erano tanti, uno sciame di ormoni e vestiti alla moda. La Milton High era per i privilegiati in campo economico. Come lei, per merito di sua madre e dell'eredità lasciata da suo padre. Però lei sarebbe di sicuro stata l'unica ereditiera con vestiti di seconda mano.

Raddrizzò le pieghe della blusa satinata con nodo frontale e quelle della minigonna di jeans con strappo laterale. Era stata attenta a non farsi vedere mentre usciva di casa. Sua madre aveva due modalità: la ignorava o le diceva dove sbagliava.

I vestiti che insisteva a comprarle lei erano raffinati, attillati, eleganti. Come se, invece di assistere alle lezioni, dovesse andare a un matrimonio. Non era il caso di fare come diceva lei. Non su questo, almeno. Forse.

Profilo basso. Inspirare, espirare.

Non l'avrebbero riconosciuta. Era persino riuscita ad iscriversi con un nome diverso.

Seduto sul sedile del passeggero, riusciva chiaramente ad immaginarsi Avery in una delle sue classiche camicie a quadri scozzesi, che le spiattellava in faccia con i suoi commenti saccenti quanto lei fosse esagerata.

Si guardò nello specchietto retrovisore, cercando di celare l'aria malinconica che bussava nei suoi occhi scuri per uscire e farsi notare. «Ciao», provò la sua nuova commedia. La voce le tremò e ritentò finché non le suonò convincente. «Sono Nathalie Gray. Mi chiamo Nathalie. Chiamami Nat».

Chiamatemi Nat.

Poteva farcela. Ce l'avrebbe fatta. Poco meno di dieci mesi e poi sarebbe partita per il college. Medicina, come voleva sua madre. No, come voleva lei.

Scese dal posto di guida, raccolse lo zaino dai sedili posteriori e scostò i capelli dalle spalle, lasciandoli liberi sulla schiena. Distratta, guardò l'orologio dorato che aveva al polso. Vedendo che segnava le due e quarantatré di notte di sabato 27 Marzo, si ricordò che era rotto e represse le lacrime.

Ignorò le occhiate e i bisbigli, mise piede nella scuola e andò dritta in segreteria. La signora che l'aveva accolta lì solo qualche settimana prima, per aiutarla a compilare i moduli necessari, le sorrise. «Oh, ben trovata, cara. Nathalie, giusto?»

«Sì, buongiorno a lei».

«Allora, ecco. Li ho tenuti da parte per te. I tuoi orari, dove si trova il tuo armadietto e le aule. Benvenuta».

«La ringrazio. Buona giornata». La salutò sperando di sembrare entusiasta e non come se quello fosse l'ultimo posto dove volesse stare. O meglio, non voleva stare da nessuna parte.

Trovato l'armadietto designato a lei, provò la sensazione di avere dei raggi rossi addosso. Quelli che aiutano i cecchini a prendere la mira per centrare il bersaglio. Ecco cos'erano i loro occhi per lei. Sperò che il collant di pile coprisse bene la lunga e brutta cicatrice che aveva all'esterno della gamba destra.

UNAPOLOGETICOù les histoires vivent. Découvrez maintenant