5. 'Non so neanche se stiamo insieme'

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Thomas asciugò la pelle e i capelli; gli occhi no, non riusciva ad asciugarli. Indossò biancheria pulita, una tuta felpata nera e gialla e scarponi da trekking verde oliva, senza togliersi da dosso vertigini e dispnea. La stanza era vuota. Sul letto le due valigie aperte si toccavano; parevano porte di camere comunicanti che stavano per essere chiuse con alta probabilità di non aprirsi più.

Alex era sul balcone; aveva su i vestiti ancora umidi: jeans e maglione celeste lavorato a treccia. Davanti al parapetto in muratura, guardava la strada, due piani più sotto, deserta nell'ora di pranzo. Non si mosse, quando sentì aprire la portafinestra.

«Se sei pronto, possiamo andare: mi sembra insensato restare.» 

La sua delusione era palpabile.

«Tieni, prendi questo, che fa freddo.»

Thomas gli porse un giubbotto di pile nero e si pose accanto a lui, con i gomiti poggiati sul muretto, a guardare il cielo, gli alberi che ombreggiavano un parcheggio poco distante, la strada deserta.

Alex indossò il giubbotto e lo chiuse. Il verme, reso innocuo, non l'importunava più: ricorrendo agli esercizi di meditazione per liberarsi dalla gelosia appresi online, l'aveva sminuzzato in zinzolini, poi incapsulati nelle cellule epatiche. Poteva approcciare Thomas tentando un adagio o, almeno, un moderato.

«Scusa. Non avrei dovuto guardare il tuo cellulare. È che... Vibrava. Sono arrivati i messaggi. Poi la chiamata. Mi ci è caduto l'occhio.»

«Alex, ascolta.»

«Non avrei dovuto neanche reagire in quel modo. Non ne avevo alcun diritto. Non so neanche se stiamo insieme. E, comunque, non avrei dovuto, in ogni caso.»

Alex gesticolò con una mano, come a scacciare una vespa.

«È vero: non avresti dovuto. Accetto le tue scuse, ma anch'io te ne devo.»

Si voltarono uno di fronte all'altro.

Se anche attorno ci fosse stato il fracasso del Carnevale di Rio, non se ne sarebbero accorti.

«Alex.»

Thomas strinse le labbra tra i denti e le accostò alle labbra di Alex.

«Io, è con te che ho preso un impegno. Tra me e te non c'è un'altra persona. C'è un fantasma del mio passato, che mi perseguita e mi ricorda che, quando ti lasci cadere con fiducia nelle braccia di qualcuno, questo potrebbe spostarsi e farti finire a faccia in giù nel fango.»

«Riesci a essere più chiaro?»

«Non adesso, lo farò, ma non adesso. Ci sono cose che vengono prima. Cose del presente, come Bambi Blu.»

Alex, ritemprato dalla dichiarazione raffazzonata di Thomas, percepì che non sarebbe seguito nulla di buono. Lo desunse da tutto di lui: il battito delle ciglia, più veloce del solito; i denti che continuavano a mordere le labbra; quel grattarsi continuamente il naso che aveva imparato a riconoscere come segnale di tensione.

«Non sei obbligato a darmi spiegazioni.»

«Lo so. Non devo, voglio. Erano loro, i miei fratelli, a chiamarmi e mandarmi messaggi. Una notizia bella e una brutta. Stamattina Lucy ha avuto il bambino.»

«Lucy? Tutto okay? Sta, stanno bene?»

«Yuri pesa quattro chili. Hanno sofferto un po' perché era in posizione podalica. Ora stanno bene, sono zio.»

Thomas si concesse un sorriso e ne strappò uno anche ad Alex.

«La brutta notizia. Detta da Willy, non sembrava così brutta, poi m'ha chiamato Mirko.»

La sua voce s'incrinò. Alex gli strinse una mano.

«Era lui che m'hai sentito chiamare tesoro, amore: il mio fratellino.»

«Un altro? Non me ne hai mai parlato! Me li presenti col contagocce? Quante cose non so di te?»

«No, ti prego. Non ce la faccio.»

Thomas si stropicciò gli occhi con la mano libera, Alex la prese e ne baciò il dorso.

«Scusami. Vai avanti.»

«Bambi Blu. Sarebbe Bambin Blu, perché è nato cianotico. La enne è caduta quando ha visto il cartone del famoso cerbiatto e ha battuto le mani tutto contento di chiamarsi come lui.»

Malgrado la trepidazione che lo rivestiva interamente come una tuta da sub, Thomas riuscì a ridere di quel dolce ricordo.

«Quanto era piccolo! I medici furono pessimisti, invece, il 20 novembre scorso ha compiuto sedici anni. Hanno compiuto sedici anni. Perché c'era anche Jacopo.»

Alex notò un leggero tremore del mento. Gli carezzò una guancia e Thomas giunse al dunque.

«Ieri pomeriggio hanno avuto un incidente in motorino. Mirko ha delle escoriazioni e un gran mal di testa, e l'anima in frantumi, perché Jacopo, Jajo... Non so neppure se c'è ancora.»

Alex lo tirò verso di sé e l'abbracciò.

«Avrei dovuto dirtelo. Ci tenevi tanto alla tua giornata speciale, non volevo rovinartela.»

«Thomas, io. Avrei capito!»

«Se te l'avessi detto, t'avrei messo in croce per cercare un volo subito, sarei andato fuori di testa. Ho provato a mantenermi calmo, mi dicevo: "Tanto stasera partiamo". Scusa! Avrei dovuto dirtelo.»

«Okay. Va tutto bene. Cioè, non va tutto bene. Intendevo che ho capito. È tutto a posto. Tra noi.»

Thomas intuì ch'era una domanda, più che un'affermazione.

«Alex, io ci tengo a te. Tanto. Ma non posso fidarmi, se tu non ti fidi di me.»

«Come faccio a fidarmi se tu di me non ti fidi?»

Thomas si staccò da Alex e dal muro, e fece un passo verso la portafinestra.

«Uno dei due dovrà pur cominciare. Fatti una doccia calda, dai. Io scendo a prendere qualcosa da mandare giù, anche se non ho per niente voglia.»

Prima di entrare in camera si voltò a guardare Alex.

«E comunque, che stessimo insieme, lo davo per scontato.»

«Ti amo.»

Alex non l'aveva detto mai a nessuno.

Thomas non lo sentì: stava uscendo dalla camera col cellulare premuto sull'orecchio destro.

Alex giurò che il verme sarebbe stato espulso definitivamente insieme alla bilirubina, al colesterolo e altre sostanze indesiderate, la prossima volta che si fosse seduto sul water.

PRANZO DI FAMIGLIA - RomanzoDove le storie prendono vita. Scoprilo ora