2. Scelta del destino

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Da giovincella, son stata lavorante, nel negozio d'una parrucchiera. Lavavo i capelli, mettevo i bigodini, ramazzavo, tenevo in ordine le spazzole, pulivo i vetri. Mi piaceva. Mi permetteva di mangiare, comprare qualche vestito e togliermi lo sfizio d'un maritozzo alla panna ogni tanto. Dovetti smettere. Non fu una mia scelta, ma del destino. Non ho dubbi.

Una sera tornai a casa stanca più del solito. Stare in piedi tutto il giorno non mi pesava. I pettegolezzi, tra poltroncine e lavatesta, mi sfiancavano.

Sono sempre stata una persona di poche parole.

Non ho mai creduto alle dicerie.

«Hai visto...» Non avevo visto.

«Hai sentito...?» Non avevo sentito.

«Sai se...?» Non sapevo.

Quando mi dicevano: «Tizio e Caia...», e la tal cosa non mi risultava, andavo a chiedere conferma diretta. Ottenuta una negazione, mettevo a tacere chiunque cercasse di convincermi del contrario solo perché «Ho visto, ho sentito, ho sognato».

Un giorno, uno dei romanzi per nulla rosa riguardò «Una compagna di scuola della nipote della vicina della cognata di mia sorella», che aveva perso i genitori ed era rimasta a vivere con l'anziano nonno.

«Una cosa disdicevole», commentarono le malelingue.

«Ma abbiamo parlato col Parroco e 'l Maresciallo», per far parcheggiare la poveretta in "Collegio", che nessuna di loro osava chiamare orfanatrofio, faceva così brutto!

Io i miei genitori l'avevo persi ch'ero già maggiorenne e tutto ciò era stato risparmiato a me e a mia sorella. Perché, sapete, anch'io ho avuto una sorella. Si chiamava Lucilla.

Nonno e nipote furono conglobati da zii e cugini; non so cosa ne dissero le linguacciute: io, in quel negozio, non ci tornai.

Abitavo al primo piano d'un vecchio palazzo senza ascensore. Un mio cugino di secondo grado salì le scale di corsa per bussare alla mia porta tanto forte che sembrava volesse buttarla giù.

In abiti da casa, avevo appena indossato le ciabatte e stavo tirando fuori dal frigorifero gli avanzi del giorno prima: pasta al forno e cicoria ripassata. Non li ho mai mangiati.

Non avrei più mangiato pasta al forno per molti anni; la cicoria ripassata non la mangio tuttora.

Vito era mio coetaneo. La sua famiglia mi era stata molto vicina e lo fu ancora per molti anni, fino a quando, pian piano, non se ne andarono tutti.

Era uno spilungone allampanato, che arrossiva facilmente, specie al mio cospetto. Anche lui centellinava le parole e le usava solo per cose interessanti, o che a me parevano tali. Non ci vedevamo spesso; di questo mi dolevo, perché la sua era una piacevole compagnia. Eravamo in amicizia, come si poteva essere a quei tempi tra un ragazzo e una ragazza in età di matrimonio: mantenendo le distanze. Per questo decise di prendersi sulle spalle il grande fardello che aveva da portarmi e d'aiutarmi a farlo fruttare.


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Mia sorella era una bella ragazza, non una zoticona come me. Ho qui la fotografia del suo matrimonio con Attilio. Il vestito bianco l'aveva cucito Povera Zia Tina, la mamma di Vito. Dell'acconciatura e del bouquet me n'ero occupata io. Lei sfoggiava entrambi con orgoglio. In quella foto mi sorride. Mi sorride tutte le volte che la guardo. Mi sorride tutte le volte che ci penso.

«Devo dirti una cosa. Ma prima siediti.»

La voce di Vito era mozzata, i suoi occhi lucidi.

«Ti prendo un bicchiere d'acqua.»

Conoscevo bene quei gesti, quelle premure.

«È successa una disgrazia. Non so come dirtelo, mi dispiace tantissimo; vorrei non dovertelo dire, ma devo.»

Forse fu d'istinto, o forse lo fece apposta: il suo sguardo si dirottò verso la foto appesa al muro, verso il sorriso di Lucilla.

Ci vedevamo poco da quando s'era sposata; sapevo ch'era felice e mi bastava. Quel poco mi riempiva i vuoti dieci volte tanto.

Mia sorella era l'altra parte di me. Sette mesi nella stessa pancia, non c'eravamo mai separate.

Era il mio sostegno, la mia coscienza, la mente quando ragionavo col cuore, il cuore quando ragionavo troppo. Era le parole che non dicevo, il calore che non emanavo, era l'eco delle mie risate. La nostra Lucy me la ricorda tanto, non solo nel nome.

In quelle ore in cui ero stata costretta ad ascoltare discorsi frivoli, il suo sorriso si era spento tra le lamiere della sua cinquecento di terza mano; per lei e Attilio nulla s'era potuto fare.

Mi sembrò di perdere me stessa e che nulla avesse più senso; di non avere più mente né cuore, senza sostegno, eco, motivi per ridere. Sentivo le forze abbandonarmi, avrei voluto lasciarle andare del tutto; durò poco, perché mi dissero che non potevo e io sapevo perché. Così mandai giù il dolore e smisi di sentirmi in colpa, stringendo a me l'unico senso che trovavo per il mio essere ancora in vita.

PRANZO DI FAMIGLIA - RomanzoDove le storie prendono vita. Scoprilo ora