3. Pizza di Pasqua della Tuscia

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Infilò le mani nelle tasche del grembiule di spugna che s'era cucito da sola riciclando vecchi asciugamani e poggiò il fondoschiena al frigorifero, in attesa che il timer con gallina trillasse il suo:«Coccodè».

La dea bendata era con lei. Nelle basi e nei pensili in olmo naturale. Nel diffusore di fragranze a ultrasuoni, regalato da Walter per darle l'illusione d'essere nel mio giardino. Nella ciliegia in carta di riso, fonte di luce e calore in quel regno d'arte e magia, separato dal soggiorno tramite un arco quadrato, in cui Lucilla si dilettava in originali creazioni di frutta e verdura o riproduceva alla lettera le mie ricette, quando non le stravolgeva.

La fanciulla aveva tirato fuori dal suo vaso di corno quel che poteva; da dov'era entrata, uscì.

Sopra al carrello portavivande la busta col risultato delle analisi faceva bella mostra di sé. Lucilla immaginò in mille immagini diverse di consegnarla a Claudio, indecisa se metterla al posto del tovagliolo o servirla come dessert. Una siffatta portata andava guarnita con raffinatezza.

«Claudio. Lo preparo con frasi ad hoc, haiku, aforismi, o aspetto che legga da sé?»

In un tornado di quesiti ad alta voce, si staccò dal frigorifero e s'apprestò a preparare il lungo tavolo rettangolare.

«Andrà bene, questa? Sì: vivacità.»

La tovaglia di lino giallo canarino era in tinta con i piatti e i bicchieri già pronti sopra il lavandino. Dispose il tutto e aggiunse le posate, l'acqua, il vino e il tagliere di legno col mix d'affettati. A centro tavola sistemò Sua Maestà la Pizza di Pasqua secondo la ricetta della Tuscia, un dolce aromatizzato con sambuca, vaniglia, cannella, buccia d'arancia e buccia di limone.


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Dopo essere emigrata qui, ogni anno mi facevo mandare gli ingredienti da giù, dalle nostre campagne, quando ancora avevo parenti al paese: è una mia specialità. Richiede molto tempo, molta pazienza e una passione stratosferica per una tradizione millenaria che si tramanda da madre in figlia, da nonna a nipote, e fa felice tutta la famiglia. Ogni volta che ne mangio, ritorno bambina, nella piccola casa accanto alla chiesa, e ritrovo mia madre.

«Guarda e impara», mi diceva.

Con le minute mani bianche, impastava la farina col lievito di birra sciolto in acqua calda e ne faceva delle palle morbide che metteva in larghe bacinelle di plastica. Le copriva con un panno di lino e sopra poneva una coperta di lana per farle stare al caldo, sussurrando loro, con tutta la tenerezza possibile: «Riposate e crescete bene, care bambine mie».

Restavano in un angolo sacro della cucina tutta la notte e «Guai a chi s'azzarda solo a guardarle».

La mattina dopo, le distribuiva in recipienti di coccio per incorporarvi lo zucchero, le uova, lo strutto e gli aromi, impastando il tutto, dapprima con un mestolo, poi di nuovo con le mani, fino a farne una grossa massa omogenea. Per ultimo, con molta accortezza, aggiungeva il liquore.

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