Capitolo 22 • Corrosione

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«Ho sempre pensato che saresti stato tu a lasciarla» confessò Jason, addentando un cornetto alla crema.

Era lunedì mattina e io, distrutto più per il trascorso con Maddie che per i voli presi nel weekend, riuscivo solo a girare il cucchiaino nel mio caffè senza zucchero in un moto di disperazione. Mi piaceva così, la mia tazzina quotidiana: amara come la mia vita.

Buttando l'occhio verso i corridoi di Harvard, pensai che non ci fosse tutto quel bisogno di essere drammatici, probabilmente: avevo cominciato la mia carriera universitaria nel preciso luogo che avevo sempre puntato, avevo trovato degli amici simpatici e le attività imprenditoriali dei miei genitori, che mi consentivano di condurre uno stile di vita ben al di sopra della media, stavano ancora andando alla grande. Purtroppo, tenere sotto controllo emozioni e sentimenti stava cominciando a diventare difficile e andavo facilmente nel panico: un bravo maniaco del controllo lo sa, niente fa impazzire più di ciò a cui non si comanda.

Scorrendo indietro nell'album dei ricordi, trovai dell'ironia nel pensare che io avrei voluto spaccare la tazzina, saltare su un treno, riempire i muri di graffiti e urlare al mondo che il mio cuore era stato spezzato mentre Maddie annegava nell'apatia, andando alla deriva. Era sempre stata lei quella chiassosa, che urlava, rideva, piangeva, si arrabbiava, non stava mai ferma su una sedia, aveva sempre qualcosa da ridire... Ci eravamo come scambiati e io non mi trovavo affatto a mio agio, nel lato pazzerello della coppia. Preferivo la calma, la serenità, l'imperturbabilità.

Anche dal punto di vista sessuale, il mio approccio era sempre stato un lento accarezzare, tastare, accendere... Una calda tortura. Negli ultimi tempi, invece, mi ero sentito scosso da provocazioni ed impulsi, come se qualcuno avesse preso possesso di me e mi avesse instillato l'idea di voler saltare addosso all'oggetto dei miei desideri.

«Perché? Non ho fatto altro che pensare a lei e andare a trovarla, ogni volta che ho potuto».

Il caffè era ormai tiepido, ma lo buttai giù comunque. Jason raccolse col cucchiaino la schiuma di latte che si era depositata lungo le pareti della sua tazza, per poi rivolgermi uno sguardo che esprimeva ovvietà.

«Scusa? Gli occhiali ti servono a diventare ancora più cieco o fai solo amabilmente finta di non vedere che Flo ti si spalma ai piedi tutti i giorni? E dirlo ad alta voce mi costa parecchio, quindi non osare dirmi che non è vero».

Sospirai. Quel giorno, la nostra amica aveva degli impegni presi con i genitori nel Connecticut, quindi non avrebbe fatto in tempo a presenziare alle lezioni e mi aveva chiesto personalmente di non tralasciare nemmeno una parola di ciò che avrebbero spiegato i docenti alla cattedra. Il fatto che si fosse dilungata tanto a specificare che voleva la migliore versione dei miei appunti non era, tuttavia, un valido supporto per l'ipotesi di Jason, a mio parere.

«Preferirei di gran lunga che fosse interessata a te, se proprio insisti a voler credere che le piaccio io».

«Pete, amico, non è una mia opera di fantasia! Mezza Harvard darebbe via un rene per poterle respirare vicino come te ma, guarda caso, lei si scansa prontamente per scivolare al tuo fianco, chiedendoti tra le righe quanto tempo ci metterai ancora a mollare la tua fidanzata a distanza!»

Repressi una grassa risata all'enfasi che metteva nell'esplicare il suo punto di vista: aveva una vena drammatica pazzesca.

«D'altronde, è la legge del mercato: meno sei disponibile, più vieni cercato. E chi sa alienarsi meglio di te!» concluse, dandomi una pacca sulla spalla a metà fra il rimprovero e l'ammirazione.

Naturalmente, sapevo che Flo rappresentava un dieci, dal punto di vista dell'attrattiva: bella, curata, attenta ai dettagli e alla postura, divertente ma senza eccessi e, ultimo ma non per importanza, incredibilmente sveglia. A molti ragazzi, oltretutto, faceva girare la testa già solo l'accoppiata capelli biondi e occhi azzurri, quindi la fila di ammiratori doveva essere davvero molto lunga. Mi chiesi, nell'ipotesi in cui Jason avesse ragione, quanti ragazzi potenzialmente perfetti per lei avesse già scartato soltanto per aspettare me, che amavo Maddie profondamente e non volevo rinunciarvi.

«Secondo te come si fa a stare insieme ad una persona anche mentre quella persona è convinta che stare lontani sia la soluzione migliore, quando chiaramente si sbaglia?» cambiai discorso.

Fu il turno di Jason di sospirare, ormai stufo marcio della mia vita sentimentale e delle sue complicanze.

«O la convinci che stare lontani è peggio che stare insieme – anche se ho i miei dubbi, visto come appari trafelato e preoccupato per tutto il tempo – oppure provi ad accettare il suo volere e le dai il tempo che le serve per rendersi conto da sola di quale sia la strada migliore. Ho imparato e sto ancora imparando, a mie spese, che forzare le cose non serve a niente in amore. Se è destinato ad essere sarà...»

«E se non lo fosse?»

«Si realizzerà ciò che deve essere. Prima o poi, a proprio modo».

La solennità di Jason mi diede molto a cui pensare.

Durante il corso della mattinata, presi appunti con fedeltà, esattamente come mi aveva chiesto Flo, ma non riuscii a porre alcun freno al mio cervello che viaggiava rapido, passando da uno scenario all'altro, creandone sempre nuove diramazioni.

In cuor mio, sapevo che io e Maddie ci appartenevamo. Non poteva essere altrimenti: me lo diceva la metafisica. Era capitata sul mio cammino e l'aveva reso più ricco di vita, più divertente, meno stabile ed insieme più ferreo, degno di essere percorso. Tenerla stretta era stata una decisione deliberata, ben più che ardua per un individuo del mio calibro di timidezza mista ad ansia sociale; lasciarla andare mi pareva persino peggio.

Sicuramente, dovevo darle ragione quando mi faceva notare che lei non era più la stessa e che io tentavo in tutti i modi di non accettarlo: quelli che per un metallo erano agenti corrosivi, per lei erano le preoccupazioni economiche e familiari, la paura di non riuscire a conciliare lo studio con il lavoro, le insicurezze su se stessa, forse anche la nostra stessa relazione. Mi stava allontanando perché la vedeva come un ulteriore peso da sopportare?

Alla parola "famiglia" mi ricordai del padre, che si era completamente dimenticato di prendersi cura dei figli, oltre ad essere parte del motivo per cui la madre era caduta in depressione. Perché era fuggito così dalle sue responsabilità?

Convincere Maddie che rimanere insieme fosse la scelta migliore non si era rivelato vincente la mattina dopo aver dormito insieme e qualcosa mi suggeriva che non avrebbe cambiato nulla insistere nemmeno a posteriori: non mi rimaneva che darle del tempo, farla respirare, sperare di non soffocare nell'attesa. Avevo bisogno che ritrovasse se stessa e da sola non ce la stava facendo. Aiutarla pur non essendo più una coppia non era vietato, no? Ci tenevo troppo per mollare tutto così. Le avrei dimostrato che, nonostante tutto, non era sola a fronteggiare le difficoltà e che le avrebbe superate tutte, perché io ero disposto ad aiutarla con o senza un titolo nella sua vita. In fondo, non ne serviva mai uno per esserci e basta.

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Peter alla riscossa, incapace di accettare ciò che gli capita senza un responso pro-attivo.

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Baci ✨

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