Remember

By JediKnight01

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"Se hai smarrito la strada, segui la nostra costellazione segreta: il Lupo Bianco non ti lascerà mai sola e g... More

PROLOGO
2. L'INDIANA JONES DEI POVERI
3. INCONTRO CON HARRY WEASLEY
4. CRUDELIA DE MON
5. CLAN HALLANDER
6. KLAUS
7. DOMANDE SENZA RISPOSTA
8. PROMESSE INFRANTE E MANTENUTE
9. LA LISTA
10. LA NONNA CON IL FUCILE
11. LA FOTO
12. BAKER STREET
13. CASA DOLCE CASA
14. SO COSA HAI FATTO
15. SMETTILA DI PROTEGGERMI
16. NON TI CAPISCO
17. ELIZABETH
18. RAGAZZO SPEZZATO
19. POSSO SOLO FERIRTI
20. SOSPETTI
21. LA FAVOLA PT.1
21. LA FAVOLA PT.2
22. UN BEL SOGNO
23. BALLO AL BUIO
24. M.W.
25. IL NUMERO
26. IL LUPO BIANCO
27. GLADYS TURNER
28. PUNTO DI ROTTURA
29. IL NEMICO
30. IL FIORE DI KADUPUL
31. IL PASSATO
32. L'ANGELO NERO
33. IL BRACCIALETTO
34. LA LEGGENDA DI CÉLINE DUBOIS
35. LA VOCE
36. L'AQUILA
37. CUORI SPEZZATI
38. WALKER AGENCY
39. BUONI E CATTIVI
40. LE BUGIE FANNO MALE
41. SUI PROPRI PASSI
42. AMORE FRATERNO
43. QUELLO CHE CERCHI È VICINO
44. L'UOMO BUONO PT.1
44. L'UOMO BUONO PT.2
45. FRATELLI
46. STORM PT.1
46. STORM PT.2
47. QUESTIONI DI FAMIGLIA
48. CUGINETTO
49. ZIO MATT
50. LA STELLA POLARE
HALLANDER
51. PER UCCIDERE IL TUO DEMONE
52. ELAINE
53. IL BRANCO PT.1
53. IL BRANCO PT.2
54. SE NON È AMORE...
55. MASCOLINITÀ TOSSICA
56. L'ARTICOLO
57. LA NOTTE DEL FALÒ PT.1
57. LA NOTTE DEL FALÒ PT. 2
58. CODICE UMBRIDGE
59. SOLO PER STANOTTE
60. LUX IN TENEBRIS ES
61. L'UOMO CATTIVO PT.1
61. L'UOMO CATTIVO PT.2
62. CASA BLACKWOOD
63. WAYLATT
64. VERITÀ NON DETTE
65. INCIDENTI PT.1
65. INCIDENTI PT.2
66. CICATRICI
67. DÉJÀ VU
68. SPIEGAZIONI
69. I DON'T THINK I CAN SAVE YOU
70. MADRE
71. COME LE ALI DI UN ANGELO
72. SEMPRE E COMUNQUE
73. RICORDARE: AMICI
74. RICORDARE: MATRIMONIO
75. RICORDARE: PUREZZA
76. GENITORI
77. I PECCATI DEI PADRI PT.1
77. I PECCATI DEI PADRI PT.2
EPILOGO
RINGRAZIAMENTI

1. SORRIDI E ANNUISCI

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By JediKnight01

«Ha un nome antipatico».

«Un nome non può essere antipatico».

«Sì invece. Il tuo nome è noioso e tu sei noioso» sentenzio con il tono di chi sta pronunciando un assioma tanto evidente. «Ed Alizée è un nome antipatico, quindi sarà antipatica».

Alan emette un sospiro rassegnato e continua a camminare al mio fianco, procedendo lungo il marciapiede.

Intorno a noi si susseguono decine di villette a schiera tutte identiche, con piccoli cortili contornati da cancelli arrugginiti. Le strade sono deserte, popolate dalle prime ombre gettate dal sole morente, le cui ultime lame di luce riverberano nell'aria dei bagliori infuocati.

«E poi che razza di nome è? Alizée... sembra una malattia gastrointestinale».

«Keeley!» mi rimprovera Alan.

«Hai ragione. Più simile ad una malattia venerea» proseguo imperterrita. «È araba, per caso?»

«Cosa?» Alan aggrotta la fronte, preso alla sprovvista. «No. Ha origini francesi per parte di madre».

«Peccato» commento delusa. «Avrei potuto salutarla con il mio fantastico arabo».

Mi guarda di sbieco, confuso. «Tu non sai l'arabo».

«Sì, invece. Te lo dimostrerei, ma non sei degno di ascoltare una pronuncia tanto fluente».

Un refolo di vento gelido mi artiglia il volto, facendomi rabbrividire. Mi stringo nel mio giubbotto nero e rafforzo la presa delle dita intirizzite sull'enorme valigia che continua a sbatacchiare contro il mio ginocchio.

Anche se è pesante, ho rifiutato con la mia solita gentilezza la proposta di Alan di portarla al mio posto.
Non mi piace farmi aiutare, e soprattutto non sopporto dover contare sugli altri. Me la cavo benissimo senza aver bisogno dell'aiuto di nessuno.
È una lezione che ho imparato da diversi anni ormai.

Sollevo lo sguardo al cielo. Ha cominciato a tingersi delle sfumature rossastre del tramonto e, all'orizzonte, si attorcigliano stracci di nubi arancioni e giallastre simili ai tentacoli di una piovra.

Fra poco appariranno le prime stelle e potrò giocare a riconoscere le costellazioni segrete. Quelle che solo io e papà conosciamo. Un gioco nostro che gli altri non possono capire.
Solo noi.

Ancora non ci credo di essere tornata a Sunset Hills.
La città in cui sono nata, ma che non è mai stata la mia casa.
La città che ha visto la mia vita accendersi e quella di mia madre spegnersi... nello stesso giorno.

Fra tanti luoghi al mondo, la donna che mi ha adottata doveva proprio vivere qui, vero?

Le spiagge delle Bahamas, sorseggiando un drink con l'ombrellino, le facevano schifo?
Oppure l'Australia, combattendo un round di pugilato con un canguro?

No. Ovviamente lei doveva vivere a Sunset Hills!

«Con la mia fortuna, scommetto che ha anche comprato la casa che era dei miei genitori» borbotto fra me.

«Che hai detto?» chiede Alan.

«Qultu annak gabion» rispondo prontamente.

«Eh?»

«Significa "ho detto che sei un idiota" in arabo».

Un lampo divertito balena nei suoi occhi color nocciola. «Qualunque cosa fosse quella, di certo non era arabo». Poi fa una smorfia e aggiunge: «Aspetta, ma mi hai appena dato dell'idiota?»

«Beh, non ti ho mica detto che sei un lurido babbano. Quello sarebbe stato peggio».

«Non sono sicuro se devo insultarti o ringraziarti, in questo momento» replica Alan interdetto.

«Nel dubbio, sorridi e annuisci».

Era una frase che ripeteva spesso mio padre, quando da piccola mi impuntavo per avere ragione su qualcosa su cui avevo palesemente torto.

Una cosa del tipo: vedevo una palla rossa.
"Papà, quella palla è blu".
E mio padre: "No, è rossa".
Ed io: "No, è blu. Sei tu daltonico".
"Okay, principessa, nel dubbio sorrido e annuisco".

Principessa.
Mi chiamava sempre così...

Scuoto la testa per scacciare quei pensieri. La malinconia non mi si addice per niente. E neanche piangermi addosso per le ingiustizia della vita.

Per citare un vero esempio morale e modello di igiene personale: "La vita non è giusta".

«Keeley, sei proprio sicura di non voler aspettare domani mattina?» insiste Alan in tono premuroso.

Cavolo, ma quante volte ha intenzione di farmi la stessa domanda?

«Sì, sono sicura. E poi dove dovrei dormire? Non posso mica sfrattare quel vecchietto senza denti che dormiva sulla panchina della stazione».

«Non c'era nessun vecchietto sulla panchina» obietta Alan.

«Sì invece. Si chiamava Fred» affermo sulla difensiva. «Perché non hai salutato Fred?»

«Ma non c'era... vabbe» si arrende, passandosi una mano nei folti capelli castani.

Ripeto: sorridi e annuisci.
È l'unico modo per sopravvivere con me... o meglio, a me.

«Giurerei che avevi meno capelli bianchi prima di conoscermi».

Lui mi ignora. «Lo sai che ho un appartamento nelle vicinanze. Potresti venire da me...»

«Suona molto da maniaco».

«Io non...»

«Hai trentasei anni, sporcaccione».

Gli sbatto la valigia contro il fianco, facendolo sussultare, più per la sorpresa che per il dolore.

«Ahia».

«Così impari ad adescare le povere fanciulle indifese».

Alan sembra sul punto di volermi decapitare con una sciabola, ma riesce a trattenersi.
Forse solo perché non ne ha una.

«Potresti essere seria per un attimo, Keeley?»

«Questo è come chiedere ad una stella di non brillare».

«Perché hai così tanta fretta di conoscere la tua nuova famiglia? Hai paura e cerchi di indorare la pillola?»

Io? Paura?
Ridicolo.
La paura me la mangio a colazione insieme alla Nutella.

Ma se in treno continuavi a pensare ai modi in cui saresti potuta scappare...

Coscienza, non ti ho interpellata. Rimani nel tuo angolino.
Grazie.

«No, semplicemente non voglio dormire sul tuo divano pieno di pulci» spiego con una scrollata di spalle.

«Allora starai sul letto e io sul divano».

«Neanche morta. Chissà quali cose indicibili avrai fatto in quel letto».

«Va bene, ci rinuncio» conclude Alan esasperato.

Si crea un silenzio insopportabile mentre svoltiamo in un quartiere completamente diverso.
Splendide tenute a più piani, circondate da giardini sontuosi e curati dall'erba falciata, siepi potate, grandi piscine o perfino campi da tennis.

Beh, almeno adesso ho la certezza che Alizée Hallander non vive nella casa dei miei genitori.

«Oh no» gemo orripilata. «Non mi dire che sono stata adottata da una ricca vedova che ha sempre sognato di avere una figlia, ma la morte prematura del marito che non ha mai smesso di amare glielo ha impedito».

Alan inarca un sopracciglio con fare stranito. «Ma c'era della vodka nella lattina di coca cola che hai bevuto durante il viaggio?»

«Ti pare che io stia ballando nuda, ricoperta di pomodoro, in mezzo alla strada?» gli faccio notare.

Lui rimane talmente incredulo per la mia risposta che non riesce a trovare le parole.

«No. Quindi non sono ubriaca».

«Devo proprio smettere di cercare di capirti» dice Alan desolato. «E comunque no. Alizée Hallander non è vedova e ha dei figli».

Mi blocco all'improvviso, le gambe che non obbediscono più ai miei comandi.
Accidentalmente, lascio cadere la valigia, che crolla sull'asfalto con un tonfo. La mia mano arrossata e il mio braccio intorpidito non possono che trarne sollievo.

«Figli? Perché hai usato il plurale?» chiedo, trattenendo a stento il nervosismo dalla mia voce.

Forse perché ne ha più di uno, Sherlock?

Alan si ferma e mi fissa con uno sguardo pieno di apprensione. «Diciamo che è una famiglia abbastanza... numerosa».

«Numerosa? Quantifica questo "numerosa". Non come i Weasley in Harry Potter, voglio sperare».

Si avvicina e mi posa una mano sulla spalla, facendomi un sorriso confortante.
«Stai tranquilla, Keeley».

«Io sono tranquillissima. Se la tranquillità fosse una persona, quella sarei io» mento con disinvoltura.

Non è difficile intuire dalla sua espressione che non mi crede affatto.

«Allora, quanti ne ha sfornati la quasi francese?»

«Beh, ecco...» riprende Alan a disagio. «Non sono poi così tanti...»

«Se non me lo dici subito, ti faccio una vasectomia manuale clandestina proprio adesso» ringhio infastidita.

«Sono sette» replica in un soffio.

«Sette, in totale?» ripeto basita. «Alizée e suo marito dovevano annoiarsi molto per fare cinque figli. Ma non potevano prendersi Netflix?»

«No, io intendevo che i figli sono sette» precisa, grattandosi la nuca con fare incerto.

COSA?!
Menomale che non erano poi così tanti, eh?

«Sei maschi e una femmina».

Ecco, appunto.
La famiglia Weasley.
A volte odio avere sempre ragione.

Il mio cuore manca un battito e lo stomaco mi si attorciglia in un nodo spiacevole.
«Sette? Ma chi fa sette figli nel ventunesimo secolo?»

«Keeley...» sussurra Alan in tono rassicurante.

«Procreare è un nuovo sport e nessuno mi ha informata?» continuo ignorandolo. «Non è una famiglia. È una cucciolata, maledizione».

«Per favore, lasciami...»

Faccio finta di non sentire. «Almeno questo rafforza la mia teoria che sia araba. Sono loro che fanno figli come comprano i lecca lecca, giusto?»

«Non è araba».

«Se lo fosse, puoi dirmelo, eh. Non sono mica razzista».

«NON È ARABA» urla Alan spazientito.

«Va bene, va bene. Non ti scaldare che perdi i capelli».

«Perché diavolo devi rendere difficile perfino cercare di aiutarti?» domanda arrabbiato.

Per un attimo, non trovo nulla da ribattere.
Perché non voglio aiuto.
Perché ho imparato a stare da sola meglio che a stare con gli altri.
Questa è la verità.
Ma ciò che dico ovviamente non è questo.

«Sul serio, hai bisogno di una tinta. Quei capelli bianchi stanno prendendo a pugni quelli marroni».

«Basta. Parlare con te é impossibile».

Se avessi un dollaro per ogni volta che qualcuno me l'ha detto, ora sarei più ricca di Alizée Hallander.

Alan si volta e riprende a camminare, ma non prima di aver raccolto la mia valigia.
Questa volta decido di non protestare.

Mi accorgo di una signora anziana che mi sta osservando da una delle terrazze della sua villa con uno sguardo scandalizzato. Sta accarezzando un povero cagnolino infilato in un vestitino rosa che tiene in braccio.

Deve aver origliato tutta la conversazione, non ho dubbi.

«Salve, pettegola del quartiere» la saluto, sventolando una mano. «Lei è per caso una ricca vedova che vuole una figlia?»

La signora mi scocca un'occhiataccia e, coprendo le orecchie del suo cagnolino, torna dentro.

«MI CHIAMI SE È INTERESSATA AD ADOTTARMI!» strillo a squarciagola.

Mi affretto a seguire di corsa Alan, che mi sta aspettando vicino ad un lampione, e rallento non appena l'ho raggiunto.

«Non ho intenzione di commentare quello che è appena accaduto» sospira arrendevole.

Sta imparando.

Camminiamo per un'altra decina di minuti. Io continuo a blaterare mentre Alan finge di ascoltarmi, bofonchiando qualcosa di tanto in tanto.
Nel frattempo le sferzate del vento si fanno sempre più insistenti e sento il freddo penetrarmi nelle ossa.

«Mi si è congelato il naso» annuncio, infilando le mani nelle tasche dei jeans sbiaditi.

«Ti avevo proposto di venire in macchina, ma hai preferito prendere il treno».

«Se tu avessi consentito a farmi guidare, saremmo venuti in macchina» puntualizzo. «La colpa è tua».

«Perché non volevi che guidassi io?»

«Puoi chiamarla voglia di vivere».

«Grazie al cielo, siamo arrivati» bofonchia Alan sollevato.

La dimora degli Hallander è simile ad un maniero antico. Ha un'aria tetra e austera, forse a causa dei muri in pietra nera.
È composta da un corpo centrale unito a due blocchi rettangolari, con due sottili torri che svettano ai lati.
Nel giardino, ampio e lussureggiante, ci sono cespugli modellati a forma di animali, aiuole piene di fiori e una piscina con un bar galleggiante.
Dietro un dedalo di siepi basse posso intravedere l'ingresso per un garage sotterraneo.

La sola idea che questa sarà la mia casa per almeno un anno mi sembra assurda.

Fino a pochi mesi fa, vivevo con mia zia Moira in un piccolo loft che avrebbe potuto stare dieci volte dentro il maniero degli Hallander e sarebbe comunque avanzato lo spazio per tutta la squadra di Quidditch di Alizée.

Incredibile come un unico evento possa stravolgere la tua intera esistenza.

Dopo che Moira è morta, sono stata affidata agli assistenti sociali e allora ho conosciuto Alan Cooper.
Lavora per una sorta di agenzia che si occupa di trovare una famiglia ai ragazzi scappati di casa, maltrattati oppure orfani e senza parenti... come me.

A quanto ho capito, Alizée Hallander si è fatta avanti fin da subito per adottarmi, anche se non ne capisco la ragione. Ma è servita l'intera l'estate per effettuare i controlli e gli accertamenti necessari per legge.

Avrei dovuto trascorrere questo periodo in orfanotrofio o trasportata da una casa famiglia all'altra, invece sono rimasta nel loft di mia zia, con Alan come mio tutore temporaneo.

Ancora mi chiedo come abbia potuto preferire sopportarmi per quasi quattro mesi piuttosto che smollarmi agli assistenti sociali.

Deve essere masochista. Non c'è altra spiegazione.

Io e Alan ci fermiamo di fronte all'imponente cancello di ferro, sorvegliato dalle statue di marmo di due leoni ruggenti che sembrano fissarci con i loro occhi rossi che sono dei rubini incastonati.

Ma perché nessuno li ha ancora rubati?

«E qui le nostre strade si dividono» commento con indifferenza. «Finalmente. Non sopportavo più di sentirti tutte le mattine cantare sotto la doccia. Sei più stonato della scimmia canterina che ho visto una volta allo zoo».

Alan ridacchia e mi restituisce la valigia. «Mi mancherai anche tu, rompiscatole».

Sul serio?
Ma allora non ti vuoi bene.

«Ovvio. Quando trovi la perfezione non vuoi lasciarla andare» rispondo orgogliosa. «Non ti preoccupare. Tanto nelle prime settimane dovrai venire a controllare che nessuno abusi di me. Sono le regole dell'agenzia, giusto?» Non riesco a nascondere una punta di speranza.

«Devo controllare che tu sia trattata bene, sì. E poi il mio appartamento non è molto lontano. Se hai bisogno, puoi sempre venire».

«Non lo farò».

Alan sfodera un debole sorriso. «Allora ciao» dice, ma non si muove.

«Dopo il saluto dovrebbe venire la parte in cui te ne vai» gli faccio notare.

«Sicura che non vuoi che ti accompagni dentro?»

No, per niente.

Roteo gli occhi ambrati, di un giallo felino. «E poi vorresti anche tenermi per mano e comprarmi un gelato come se avessi cinque anni?»

Alan mi studia per un secondo, fissandomi con uno sguardo talmente intenso che ho quasi paura che possa leggere la paura che mi sta dilaniando e l'ansia che invade ogni fibra del mio corpo.
Invece non è così.

«Come vuoi, Keeley. Chiamami se hai qualche problema».

Mi scompiglia i capelli blu scuro, come li tingo ormai da anni, e poi si allontana, probabilmente diretto alla fermata dell'autobus.
Avrebbe voluto prenderne uno anche per giungere fin qui, ma mi sono opposta.
Detesto i mezzi pubblici.

Prendo il telefono e premo un contatto in rubrica. Sono abbastanza vicina da sentire lo squillo e vedere Alan che estrae qualcosa dalla tasca e la porta distrattamente all'orecchio.

«Pronto?»

«Alan, ho un problema. Devo convivere con sei maschi arrapati».

Alan si gira e, guardandomi da lontano, esclama: «Molto divertente».
Poi rattacca e se ne va, lasciandomi sola davanti al cancello della mia nuova casa.

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