La forgiatrice di lame Ⅰ

By Adriano_Marra

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Si prospettava essere una primavera come le altre per Keiko e i suoi amici, abitanti di un placido villaggio... More

Prologo
1. Sgattaiolando all'alba
2. Spedizione di classe!
3. Prima notte nella foresta
4. Ostaggio in una grotta
5. Ragazza in braccio, zaino in spalla
6. Gli arcani d'una fuggiasca
7. Intimità infranta
8. Appesi a un filo
9. Mani calde - parte 1
10. Mani calde - parte 2
11. Sgattaiolando al tramonto
12. L'amica di Larou
13. Pesce di biblioteca
14. Sgattaiolando di notte
15. Davanti al ruscello
16. Lupacchiotti irritabili
17. Una notte tormentata
18. Vicini alla meta
19. L'accampamento di Hako
20. Assassini e latitanti
21. Un'avventuriera sfuggente
22. Tecniche di evasione
24. Hako poco sobria
25. Notte al calduccio
26. Le mutande della discordia
27. Indagini in fucina
28. Un bibliotecario atipico
29. Analisi ipogee
30. Visitatori alquanto irruenti
31. L'assedio di Irake mashi - Sciabolate fra i vicoli
32. L'assedio di Irake mashi - Messi alle strette
33. L'assedio di Irake mashi - Il generale Toratta
34. Mano nel tufo
35. Quotidianità postuma
36. Teso scotte e cazzo cime
37. Confessioni al largo
38. Scisma di cabina
39. Ansia astrale
40. Scialuppa abusiva
Anticipazioni

23. In taverna

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By Adriano_Marra

Ci aggirammo per le vie cittadine sperando che nessuno ci notasse o che ci ponesse domande scomode, malconci com'eravamo.

Di gente della nostra età se ne vedeva poca in giro. L'aspetto del villaggio era dominato, in quella prima parte più vicina alla foresta, da architetture prevalentemente lignee. Il terreno era capillarizzato da una fitta rete di piccoli ruscelli, probabilmente artificiali, effluenti del fiume più grande che attraversava la città; fiume che si tramutava in cascata nella parte più orientale del centro urbano, scendendo fragorosamente lungo i costoni del promontorio.

Noi accedemmo al villaggio proprio dalla parte più orientale, a contatto col bosco, dove tanti ponticelli puntellavano le strade cittadine per consentire a chiunque di poter scavalcare quei piccoli corsi d'acqua onnipresenti.

Mentre passeggiavamo sotto le calde luci delle torce attaccate alle pareti degli edifici, alla ricerca di un luogo in cui fermarci a riposare come una locanda o simili, Hako iniziò a parlarmi:

– Ci vieni spesso qui?

– Non molto, ci sarò passato un paio di volte.

– Quindi dove andiamo ora?

– Un paio di volte, quindi... non lo so, non mi so orientare, – ammisi.

– Siamo messi bene insomma.

– Cerchiamo una locanda e fermiamoci lì per la notte, domani penseremo al filamento.

– Prima però mangiamo, – puntualizzò, come fosse la cosa più importante a cui pensare.

– Va bene, – sospirai, col sollievo di essere finalmente fuori pericolo.

Hako cambiò discorso.

– Questo villaggio è molto diverso dal vostro.

– Che intendi di preciso?

– Beh, è più... vivo?

– Ma c'è solo gente dai quarant'anni in su.

– Sì ma, non so, ha un aspetto diverso, più dinamico. Ci sono comunque più persone per strada. E poi... questi fiumiciattoli che scorrono in giro sono davvero carini.

– Sì, è vero.

Continuammo a camminare lungo il sentiero vicino allo strapiombo del promontorio, senza addentrarci nel centro urbano. Avrebbe dovuta essere una via molto importante quella: le attività commerciali e i servizi sembravano concentrarsi tutti sulla sponda destra di quella strada e, a sinistra, c'era l'apertura al suggestivo paesaggio della valle.

Arrivammo in un punto del villaggio in cui le abitazioni si fecero più sporadiche. Ci si aprì davanti una grande distesa di terre coltivate, e sembrava quasi che fossimo usciti dal villaggio ed entrati in campagna; tuttavia, era visibile più in fondo una concentrazione molto più fitta di edifici. Pareva che la città fosse divisa in due parti, o che fossero addirittura due villaggi diversi. A legare i due nuclei urbani c'era solo la strada su cui camminavamo noi, tra le poche vie sulle quali ancora si affacciava una certa quantità di edifici.

Continuammo ad andare oltre, non avendo ancora trovato alcuna locanda aperta e non sapendo bene dove altro andare.

Dopo altri sei minuti di camminata ne trovammo finalmente una.

Dall'interno provenivano suoni di giovialità, voci divertite e un confuso tintinnare di posate e piatti.

Hako e io studiammo l'insegna, ci guardammo e decidemmo di entrare, sperando che avessero anche qualche stanza per poter pernottare.

Lei lasciò che fossi io ad afferrare la fune della porta e a entrare per primo. Entrambi probabilmente ci aspettavamo di trovare immediatamente una grande sala piena di tavoli e bevitori incalliti, ma quella porta s'apriva su un piccolo vano d'ingresso, come una sorta di anticamera, disposto trasversalmente rispetto a noi. In poche parole, appena si spalancava la porta bisognava girare a sinistra, per poi trovare alla fine del corridoio l'entrata più interna a destra.

L'edificio era costruito con una tecnica che ibridava legno e pietra, e aveva un aspetto che era già sensibilmente diverso dalle prime strutture che si incrociavano passeggiando nella zona più a est del villaggio. Più ci si spingeva a occidente, più le architetture diventavano litiche, con il legno che, in percentuale progressivamente maggiore, lasciava il posto a quella chiara pietra a grandi blocchi.

Giunto alla fine del disimpegno voltai lo sguardo a destra, con Hako che mi seguitava sporgendo il musetto oltre la parete per condividere la mia stessa vista.

Nessuno sembrò averci ancora notati. Accompagnato dal continuo e vivido tintinnare, mi rivolsi ad Hako:

– Che facciamo? Entriamo?

– Beh, ormai siamo qui... direi di sì.

Dopo qualche istante di esitazione decidemmo di immergerci a pieno nella massa di ospiti della taverna.

Il solaio, costruito con una pesante intelaiatura lignea, ma anche gli arredi, le pedane in legno e la calda luce delle lanterne, davano un aspetto molto rustico all'ambiente.

Eravamo entrambi disorientati e speravamo di non dare troppo nell'occhio, augurandoci che nessuno capisse che fossimo due vagabondi appena giunti dalla foresta dopo un combattimento sanguinolento.

Le intenzioni erano quelle di mettere qualcosa sotto i denti e chiedere qualche informazione in giro, auspicandoci di trovare qualcuno di sufficientemente ospitale.

Io mi diressi a un tavolo libero e mi sedetti, Hako invece si fermò più indietro, davanti all'alto bancone. Ci accorgemmo di esserci distaccati appena ci guardammo attorno, alla ricerca l'uno dell'altro. Entrambi ci dirigemmo in due punti diversi della taverna come per automatismo e rimanemmo straniti dalle altrui azioni. Ci guardammo in faccia, senza smuoverci, convinti che ognuno avesse agito nel modo giusto, e certamente non reagimmo richiamandoci urlando da una parte all'altra del locale. Piuttosto, attendemmo che l'uno si decidesse a recarsi nella posizione dell'altro.

Dopo qualche secondo di tentennamento si presentò una giovane donna al bancone vicino al quale era Hako. Io vidi la scena a qualche cubito di distanza, seduto al tavolo.

– Ciao ragazzina, desideri qualcosa?

– Ehm... volevamo ordinare. Io e quel ragazzo lì, – mi indicò.

– Ah, sì... beh vai al tavolo no?

– Il tavolo? Sì certo, giusto... il tavolo, – confermò confusa.

Ad avere torto sulla posizione fu lei, che dopo il dialogo decise di sedersi al tavolo accanto a me. La donna, invece, tornò nei vani riservati al personale, sparendo dal bancone.

– Perché ti... – appena aprii bocca, Hako mi interruppe.

– Sono abituata a ordinare al bancone dalle mie parti, zitto, – mi ammutolì, come a non voler riconoscere di aver sbagliato. Quella piccola indecisione divenne una piccola sfida a chi avesse ragione e, a quanto pare, avevo vinto io.

– Va bene, come vuoi.

– C'è un menù da qualche parte qui? – chiese lei.

– Ja.

Dicendo ciò aprii il ridottissimo cassetto a scomparsa collocato sotto il piano del tavolo. Da lì presi la tavoletta di legno con su agganciato il foglio del menù e la porsi ad Hako, che sembrò aver scrutato la scena con sospetto.

– I menù sono in uno scomparto sotto il tavolo? Davvero?

– Sì, perché? – iniziai a capire come, venendo da due culture molto lontane, avessimo abitudini e usanze diverse, – Da te invece i menù li attaccano con delle pinzette su dei fili sospesi da una parete all'altra? – scherzai.

– No, scemo, – più che una sfida, il dialogo stava diventando un vero e proprio scambio di costumi, – siamo molto più banali noi.

– Fammi indovinare, li lasciate semplicemente sul tavolo?

– Ehm, no. Sono fissati sul piano del bancone.

– Davvero? E non si rischia di far accalcare troppa gente in quell'unico punto?

– Beh, difficilmente c'è un unico bancone. Di solito ce n'è uno per ogni categoria di bevanda, pertanto ognuno sceglie a che bancone andare in base alle proprie preferenze.

– Oh, bizzarro. Ma quindi non avete tavoli?

– Li abbiamo, ma ci si siede solo per mangiare e chiacchierare, non per bere.

– Quindi ogni volta che dovete bere qualcosa vi dovete alzare dal tavolo e andare al bancone?

– Normalmente il bere e il mangiare sono due momenti diversi del pasto, quindi il problema non si pone.

– Ma non sarebbe a quel punto più semplice fare come facciamo noi?

– Beh, al mio villaggio ci sono diatribe su tutto. La gente si schiera anche per l'alcolico migliore. Il fatto che ci siano più banconi serve a evitare che due persone tifose di due bevande diverse si trovino troppo vicine.

– Va be' ma che può succedere?

– È la prima ragione per cui scoppiano risse nelle taverne.

– Caspita, riuscite a litigare per tutto...

– Diciamo che molti nel nostro villaggio fanno della bevanda preferita una vera e propria questione di competizione.

– Inizio a credere che fra tutti quelli del tuo villaggio tu sia la più pacifista.

– Ecco, vedi, apprezza la mia morigeratezza.

– Sì, certo, – ironizzai, – molto relativamente.

Giunse finalmente al tavolo la donna che prima era al bancone e si sedette con noi al tavolo per prendere le ordinazioni.

Avrebbe potuto avere all'incirca ventiquattro o venticinque anni, era chiara di carnagione e portava i capelli castani acconciati a crocchia sulla nuca. A tenerle legati i capelli c'era un piccolo nastro dello stesso colore delle chiare iridi dalle tonalità rosacee. Infine, la sottile camicetta bianca e gli altrettanto chiari pantaloncini le davano una parvenza fresca e leggera.

– Ciao ragazzi, sapete già cosa prendere? – chiese a entrambi, sorridendo.

– Uhm, effettivamente non ancora, – dissi io – magari un... – rimasi in sospensione, concentrandomi su una voce del menù, – uno di questi? – girai verso la cameriera il pannello in legno continuando a indicare il piatto scelto affinché lei stessa potesse leggere.

– Oh sì, un panino con patate, va bene, – appuntò l'ordinazione sul taccuino, – per la ragazza dai capelli azzurri invece?

Hako, prima spaesata, trasalì al sentirsi chiamare.

– Sì, giusto... allora, ehm... – mi sfilò il menù dalle mani e impiegò un po' a cercare quel che voleva, – dove sono gli alcolici?

– Alla seconda pagina, – rispose gentilmente la donna, che già sembrò aver capito che Hako non fosse molto avvezza a quei locali, per lo meno non a come erano strutturati da noi.

– Ah, c'è una seconda pagina, un attimo ché guardo, – disse con una certa ansia, come se non volesse far aspettare troppo la cameriera, – Non... non lo so, non ne conosco neanche una.

– Vieni dalla Grande foresta, vero? – interruppe la cameriera con fare sicuro, come se sapesse bene di quel di cui stava parlando.

– Eh? Cosa? – Hako reagì spiazzata.

Io intervenni in risposta, curiosando nella loro discussione.

– Ma... come lo sa? – chiesi alla cameriera.

Era inutile tentare di nasconderlo. Quella donna era una completa sconosciuta, ed eravamo in un villaggio diverso dal mio in un contesto ovviamente amichevole, dunque non vi era in alcun modo la possibilità che fosse una spia o chissà cos'altro.

– È abbastanza palese dal suo accento. Il mio ragazzo viene da lì, per questo è molto facile per me riconoscerlo. Certo... non avete una parlata esattamente identica, però è simile, – disse carinamente.

Hako mi lanciò uno sguardo di impreparazione misto a confusione.

– Si sente davvero così tanto il mio accento? – chiese Hako curiosamente.

– Hai un ragazzo?! – sovrapposi la mia domanda alla precedente.

Hako mi lanciò un'occhiataccia, ma entrambe non si aspettavano quella mia entrata nel dialogo, pertanto chiarificai la domanda.

– Intendi, hai un ragazzo... che viene dalla Grande foresta? Nel senso che mi sembra esotico che, insomma avete capito.

Ignorarono la mia affermazione mettendola tra parentesi e la cameriera rispose ad Hako.

– Beh sì, si sente. Aspetta, aspetta! – disse eccitata, – Dì granello.

– Gra... granello? – Hako rispose col suo accento, pronunciando la parola con una vocale diversa.

– Ecco vedi! Che buffo, anche il mio ragazzo la pronuncia così.

– Oh... beh, grazie? – Hako sorrise, ma era palesemente in imbarazzo e non sapeva come rispondere.

La cameriera aveva chiesto di dire esattamente la parola che Hako non riuscì a comprendere quando la composi con la mappa, contenendo una vocale che da lei non esiste, quando ci trovammo davanti a quel gruppo di rizekki nella foresta. Iniziai a credere che quel gioco con la parola granello non fosse poi tanto sconosciuto.

– Comunque, scusami, mi sono distratta, – disse la donna – tornando alle ordinazioni, quindi?

– Uhm, non lo so, – disse Hako.

– Allora vediamo, e se ti portassi un po' di tutto?

– Cosa... no, cioè, sì! Ma, nel senso... va bene?

– Tranquilla, ci penso io, ti porto una varietà di alcolici, sei una ragazzina simpatica. Per te invece, da bere? – chiese, riferendosi a me.

– Niente niente, non bevo alcolici.

– Ah... va bene, – disse ciò alzandosi coll'intento di avviarsi verso le cucine, – Grazie, vado!

Io ringraziai in risposta e Hako la salutò con la mano buffamente.

Le ordinazioni portarono via molto più tempo del previsto, ma al tavolo tornammo a essere in due, circondati seppur esclusi da quella massa di clienti che popolavano la taverna.

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