18. Vicini alla meta

83 12 10
                                    

Quel giorno fui lento a ridestarmi dal sonno. Permasi in dormiveglia a lungo, forse addirittura per qualche ora, in uno stato sempre in bilico fra il sonno e la lucidità.

Il fuoco della sera prima era ormai spento. Al suo posto, i suoni diurni della foresta echeggiavano di foglia in foglia.

Nel primo tempo di questo stato prolungato di leggero sonno, la mia mente non riusciva ancora a processare tutti gli stimoli. Solo quando mi trovai sul punto di svegliarmi definitivamente, iniziai a sentire un fastidio al piede.

Con la flemma tipica della prima mattinata alzai il busto e vidi la nostra situazione al momento del risveglio. Hako stava dormendo tenendo addentato il mio piede, a cavallo fra il dorso e la caviglia.

In quel momento riuscii più definitamente a percepire le sensazioni che provavo al piede: un senso di umidiccio e un po' di bruciore.

D'istinto mossi di qualche digito la gamba lontano dalle sue fauci, ma niente da fare; continuava a tener saldamente il piede coi denti.

A quel punto esclamai a voce alta per svegliarla:

– Hako!

Lei si smosse d'impulso, come colta alla sprovvista, e si svegliò tutta d'un colpo. Lasciò il piede e, dopo il primo scossone dovuto al mio richiamo, iniziò lentamente a riprendere consapevolezza.

Aveva il viso solcato dalle pieghe del telo ed era leggermente sudata. Doveva aver dormito molto profondamente, ma anche in modo poco quieto, a giudicare dalla gocciolina di sudore che le scivolò dal collo fino al centro del petto. Da appena sveglia, inoltre, le sue fattezze erano più rilassate, dandole in parvenza una pelle più soffice del solito.

Lo scatto la fece alzare in busto da un lato, ma era ancora stordita.

– Cos'hai da urlare? – disse, stropicciandosi l'occhio e sbadigliando.

– Mi, mi hai... guarda il mio piede! – mi dispiacque iniziare male la giornata, ma il mio piede era leso nel corpo e nello spirito.

Presi in mano quella mia terminazione e glie la misi bene in vista. Dopo che ebbe levato quei suoi denti dal mio piede, ebbi l'occasione di capirne lo stato. Il bruciore allora si fece sentire distintamente, con tutta la zona intorno al piede rossa in pelle, a tratti quasi violacea, e ben insalivata.

Lei, non esente ancora da un certo inebetimento, guardò il piede.

– Oh... sono stata io?

– Sì! Mi hai addentato il piede nel sonno! E brucia!

– Eh, scusa! Che cosa vuoi da me? Stavo dormendo, mica ero cosciente!

– Ho capito ma... Perché!? Sei cannibale?!

– Ma che dici! Mi piace solo la carne. Molto...

– Vedo che ti piace pure la mia di carne però!

– Eh, va be', – girò ironicamente il discorso, – scusa, ma come avrei potuto sapere se la tua carne fosse buona o meno senza neanche assaggiarla?

– Cosa!? – urlai io, esterrefatto.

– Niente... scherzavo.

– Oh mannaggia, brucia però... uffa, – mi rivolsi allora al piede dolorante.

– Uhm... fa così male? – avvicinò il viso a me, puntando il piede veterano con lo sguardo tipico di una bimba curiosa che non accenna colpevolezza.

– Sì –. Risposi con un tono pregno di autocommiserazione, guardando al povero martoriato con sofferenza e compatimento. Sul momento non ci feci caso, ma probabilmente avevo un timbro vagamente piagnucolante, tuttavia non potevo farci nulla... mi faceva male.

La forgiatrice di lame ⅠDove le storie prendono vita. Scoprilo ora