23. In taverna

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Ci aggirammo per le vie cittadine sperando che nessuno ci notasse o che ci ponesse domande scomode, malconci com'eravamo.

Di gente della nostra età se ne vedeva poca in giro. L'aspetto del villaggio era dominato, in quella prima parte più vicina alla foresta, da architetture prevalentemente lignee. Il terreno era capillarizzato da una fitta rete di piccoli ruscelli, probabilmente artificiali, effluenti del fiume più grande che attraversava la città; fiume che si tramutava in cascata nella parte più orientale del centro urbano, scendendo fragorosamente lungo i costoni del promontorio.

Noi accedemmo al villaggio proprio dalla parte più orientale, a contatto col bosco, dove tanti ponticelli puntellavano le strade cittadine per consentire a chiunque di poter scavalcare quei piccoli corsi d'acqua onnipresenti.

Mentre passeggiavamo sotto le calde luci delle torce attaccate alle pareti degli edifici, alla ricerca di un luogo in cui fermarci a riposare come una locanda o simili, Hako iniziò a parlarmi:

– Ci vieni spesso qui?

– Non molto, ci sarò passato un paio di volte.

– Quindi dove andiamo ora?

– Un paio di volte, quindi... non lo so, non mi so orientare, – ammisi.

– Siamo messi bene insomma.

– Cerchiamo una locanda e fermiamoci lì per la notte, domani penseremo al filamento.

– Prima però mangiamo, – puntualizzò, come fosse la cosa più importante a cui pensare.

– Va bene, – sospirai, col sollievo di essere finalmente fuori pericolo.

Hako cambiò discorso.

– Questo villaggio è molto diverso dal vostro.

– Che intendi di preciso?

– Beh, è più... vivo?

– Ma c'è solo gente dai quarant'anni in su.

– Sì ma, non so, ha un aspetto diverso, più dinamico. Ci sono comunque più persone per strada. E poi... questi fiumiciattoli che scorrono in giro sono davvero carini.

– Sì, è vero.

Continuammo a camminare lungo il sentiero vicino allo strapiombo del promontorio, senza addentrarci nel centro urbano. Avrebbe dovuta essere una via molto importante quella: le attività commerciali e i servizi sembravano concentrarsi tutti sulla sponda destra di quella strada e, a sinistra, c'era l'apertura al suggestivo paesaggio della valle.

Arrivammo in un punto del villaggio in cui le abitazioni si fecero più sporadiche. Ci si aprì davanti una grande distesa di terre coltivate, e sembrava quasi che fossimo usciti dal villaggio ed entrati in campagna; tuttavia, era visibile più in fondo una concentrazione molto più fitta di edifici. Pareva che la città fosse divisa in due parti, o che fossero addirittura due villaggi diversi. A legare i due nuclei urbani c'era solo la strada su cui camminavamo noi, tra le poche vie sulle quali ancora si affacciava una certa quantità di edifici.

Continuammo ad andare oltre, non avendo ancora trovato alcuna locanda aperta e non sapendo bene dove altro andare.

Dopo altri sei minuti di camminata ne trovammo finalmente una.

Dall'interno provenivano suoni di giovialità, voci divertite e un confuso tintinnare di posate e piatti.

Hako e io studiammo l'insegna, ci guardammo e decidemmo di entrare, sperando che avessero anche qualche stanza per poter pernottare.

Lei lasciò che fossi io ad afferrare la fune della porta e a entrare per primo. Entrambi probabilmente ci aspettavamo di trovare immediatamente una grande sala piena di tavoli e bevitori incalliti, ma quella porta s'apriva su un piccolo vano d'ingresso, come una sorta di anticamera, disposto trasversalmente rispetto a noi. In poche parole, appena si spalancava la porta bisognava girare a sinistra, per poi trovare alla fine del corridoio l'entrata più interna a destra.

La forgiatrice di lame ⅠDove le storie prendono vita. Scoprilo ora