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Proprio come quel lontano giorno, Astrid assieme ad Etienne sul pegaso, sorvolò l'Isola che ormai conosceva palmo a palmo.
Non era più stupita come la prima volta che la vide. Le verdi colline dal morbido profilo, piene di vita e di natura, i vari templi disseminati ovunque, la piazza ottagonale alla quale confluiscono tutti i quartieri, per non parlare poi dell'imponente monoptero.
L'unica differenza che balzò all'occhio era l'inclinamento del terreno emerso, causato dall'annunciato annullamento della protezione da parte di Poseidone. Il patio Sole Luna e il suo Monoptero parvero già in evidente pendenza.
Dall'alto, Astrid ed Etienne, notarono anche il livello del mare salire pericolosamente. I dodici bastioni costituenti gli appoggi delle colonne sottomarine, sopra le quali Vera Delo si sorregge, stavano cedendo.
«Mi spiace profondamente per Greta», mormorò Astrid alle spalle di Etienne.
«Il colpevole o la colpevole, se la vedrà con me! Te lo giuro Astrid!» ringhiò arrabbiato il figlio di Zeus.
Ganimede, virò in direzione dei punti strategici dell'isola. I ragazzi assistettero alla scomparsa dell'aura protettrice dell'Isola generata dal sacro monumento.
«La situazione si aggrava di attimo in attimo!» constatò Astrid.
«Già! Dobbiamo attuare all'istante il tuo piano difensivo!» prospettò Etienne.
«Sai che non è mia la strategia!» ricordò la figlia di Atena.
«Conta poco!» ribatté lui.
«Cosa conta per te, allora?»
«Non capisco cosa intendi!» rispose evasivo Etienne.
Astrid, pur consapevole d'aver scelto il momento meno giusto, azzardò. «Sarà difficile per te prendertela con Justice, che tu accusi essere l'assassina di Greta, perché come lei era una tua... compagna»
«Justice Kassidy era più amica di Greta che mia!» ribattè veloce Etienne.
Astrid comprese che non era Justice a occupare il suo cuore.
«E quella Rubelia Sharon di Dioniso?» domandò fintamente distaccata.
«Oggi sei particolarmente strana Astrid, va tutto bene?».
Astrid non gli rispose, poiché notò una coppia di Arpie, uguali alle donne-mostro-alate che cinque anni prima le avevano ucciso il padre e cercato di uccidere pure lei. Senza pensarci troppo, si lanciò nel vuoto nella loro direzione a oltre trenta metri di tanza. Estrasse dalla custodia che aveva legata alla gamba destra il famoso ferro d'oro da maglia e atterrò sulla schiena di una delle due megere volanti. Il mostro umanoide ringhiò infastidito, maledicendo in strane lingue la formidabile guerriera. Lei sfruttò le sue ali demoniache come un aliante per attutire l'atterraggio e, prima di giungere sul suolo fermo, gliele tagliò.
Atterrò in un piccolo spazio verde incolto e isolato. La belva dell'Erebo dalle ali mozzate gridò dal dolore. Astrid le serbò un ghigno glaciale. Se qualcuno avesse potuto vedere quello sguardo avrebbe visto il suo lato più spietato. Le odiava le arpie, anche più di ogni altro mostro affrontato dopo esse.
L'altra con le ali ancora intatte si slanciò contro la semidea, che però non si fece trovare impreparata. Astrid, balzando agilmente, le mozzò le braccia con il ferro da maglia. Dominò la lotta con maestria. L'Arpia, pur con tutte le armi artigliate in possesso, non poté far altro che soccombere ricevendo in mezzo al petto un ramo di quercia che Astrid raccattò da terra durante la lotta. Il mostro vide sgomento lo sguardo pieno d'odio della ragazza, prima di diventare polvere dorata.
L'ultima Arpia si tenne a distanza raggirando la guerriera. Ordì un assalto alle spalle. Ma Astrid prevedette la sua mossa, e prim'ancora d'essere artigliata, le mozzò la testa. La guerriera di Atena, col ferro da maglia insanguinato, osservò gelidamente lo stesso epilogo ripetersi. L'arpia, volgendole gli occhi imploranti, si polverizzò.
Etienne, come la prima volta sul ponte del Golden Gate, arrivò secondo.
«Veloce e aggressiva come al solito, eh! Astrid!»
«E tu sei lento! Come in tutto il resto!», lo rimbrottò Astrid in malo modo. Il figlio di Zeus afferrò il concetto. Fece una smorfia, e col suo Ganimede andò via solo.
«Presto! Di qua!», urlò un ragazzo a capo di un gruppo di guardia sbucando dinnanzi ad Astrid che l'osservò perplessa.
«Ah! I figli di Ares!» li schernì. «Giusto! » pensò poi. «Voi non c'eravate all'assemblea».
«Noi siamo di guardia questa settimana!» riferì uno dei ragazzi.
«Già. Sarò breve: l'Isola a partire da questo momento, sarà sotto costante attacco dei mostri. Raddoppiate i turni e aumentate lo stato d'allerta!». Il tono aspro e imperioso di Astrid scatenò le proteste dei figli di Ares. Nel frattempo, dietro un folto cespuglio, saltò fuori Valentine Brown con due compagni a seguito.
«Ma quanto siete lenti!» esordì energicamente. «Tripliclate i turni di guardia!» gridò furioso. «Non permettete mai più alle Arpie di avvicinarsi così tanto al centro abitato!»
Astrid dovette tapparsi almeno un orecchio per evitare di assordarsi totalmente.
«E soprattutto, non voglio venire a sapere che vi siete fatti sfuggire una preda da quelli di Atena!»
«Come? Prego?» rispose pacatamente Astrid a quell'asserzione denigratoria. Gli puntò addosso il gelo dei suoi occhi grigi scuri dal taglio vagamente orientale. Gli si avvicinò a passo spedito e fiero fino a sfiorargli la spalla e lo oltrepassò senza dedicargli un attimo di più.
Astrid non s'accorse invece che Valentine la stava guardando ammirato; come egli stesso non notò gli sguardi interrogativi dei suoi fratelli semi divini. «Che guerriera! Non si direbbe che sia figlia di Atena», borbottò impercettibilmente.
Justice Kassidy azzardò il suggerimento della collaborazione tra i quartieri di Atena con quello di Ares perché era a conoscenza dell'ammirazione provata da Valentine Brown nei confronti di Astrid. Questa astuzia, in verità, non la carpirono neanche i due diretti interessati.
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Nell'elegante quartiere di Afrodite, oltre il lussuoso caseggiato puntellato da varie botteghe alla moda e profumerie adorne di roseti di tutti colori possibili, stormi di colombe pavoncelle dal candido piumaggio, volavano leggere, spargedo ovunque il profumo dei fiori.
C'era, però, una casa in fondo, separata dai rioni del quartiere, dove risiedeva Dafny Rosembown, e dove il profumo sospinto dalle colombe ingaggiava dure lotte perpetue contro ben altri profumi.
Di fronte quella dimora, un'aia di poche decine di metri faceva bella mostra di sé, tutta recintata con uno steccato di legno di quercia. Tra le fragole e piccoli arbusti da frutto coltivati all'interno, una dozzina di galline bianche razzolavano attorno a un enorme maiale nero dalle orecchie e naso rosa. L'enorme animale, invece, seguiva come un'ombra la padrona di casa.
Un paio di piedini femminili e delicati, attaccati pericolosamente a due caviglie sottili, sorreggevano coraggiosamente il peso sproporzionato di Dafny.
«Mister Jons, non starmi tra i piedi!» esortò dolcemente Dafny, rivolgendosi al suino, mentre s'aggirava tra le galline con un cesto di vimini, piegandosi di tanto in tanto per raccogliere le uova appena deposte.
Dafny non amava le rose, anche se ne piantò due rampicanti solo in onore della madre Afrodite. Quando le piantò, riluttante nel farlo, raccomandò esse di crescere senza esigere alcuna cura, perché non ne avrebbero ricevute. Tuttavia, malgrado il suo disinteresse, gli arbusti crebbero e fiorirono rigogliosamente. Il profumo di quei fiori era così intenso che copriva quello del pollaio e del simpatico maiale Mister Jons che, non si capiva bene come, espletava i suoi bisognini semisolidi... espellendoli a spruzzo, come fosse una specie di "bombardiere biologico".
Qua e là e tutto intorno, si potevano vedere i bersagli centrati dal suo... di Mister Jons.
Nella Piazza Agorà, apparve una donna leggiadra che imboccò la direzione del quartiere Afrodite. Era vestita come Audrey Hepburn in "Colazione da Tiffany", ma non di nero, piuttosto di bianco, come tale lo era l'ampio cappello in stile belle epoque francese che le copriva parte del viso. A spezzare l'armonia del candido abito, i guantini fatti di pizzo dorato e le scarpe avorio dai tacchi improponibili. Il volto, poi, indescrivibile: era lei, la prima dea apparsa sulla terra, nata dalla spuma del mare e dal sangue del Titano Urano, semplicemente Afrodite, fra tutte le dee la più bella.
Malgrado nel viale ci fossero un bel po' dei suoi figli che transitavano da un luogo all'altro del quartiere, solo pochi di loro furono in grado di riconoscerla. Quei pochi ragazzi più dotati, vedendola, posarono la mano sul cuore chinando il capo mestamente, ricevendo da lei un sorriso incantevole.
Per gli altri, invece, sembrava uno dei tanti spiriti di Vera Delo, al quale un lieve cenno di saluto disobbligava a sufficienza il rispetto da osservare.
Dafny svolgeva i suoi lavori indossando le più larghe e comode delle tute. Quella scelta per quel giorno era piuttosto confortevole, di color bordeaux scolorito, che grazie al maiale Mister Jons, mai pulita, e soprattutto mai profumata. Portava poi, sempre in testa, un fazzoletto legato sotto il collo, o quello che poteva essere perché Dafny, al contrario dei suoi fratelli semidivini, non presentava esattamente tutti i canoni estetici che distingueva la stirpe di Afrodite, dea della bellezza.
Goffa, fuori forma e in sovrappeso, non era molto popolare, e lei nemmeno cercava di esserlo.
Un odore tra tutti, proveniente costantemente dalla cucina, sovrastava spesso il profumo delle rose. Non poteva essere più ovvio di così, vista la passione per la cucina della padrona di casa, per i dolci soprattutto. Pochi conoscevano la sua calorosa accoglienza rivolta a chiunque bussasse alla porta, nonostante mantenesse una certa distanza dagli accadimenti dell'isola. La sua gentilezza non poteva dirsi un'arma, ma colpiva anche più efficacemente delle armi. Di questo ne era sempre convinta.
Malgrado la volontaria estraneità alla vita sociale di Vera Delo, non poté non notare anche lei che qualcosa non andava: il suo bell'orto e l'aia pendevano da un lato. Pure la bella casetta con terrazzino, costituita da un soggiorno, ampio angolo cucina più dispensa e cameretta da letto appariva storta. Dafny la osservò piegando la testa in direzione della pendenza. Rimase perplessa. "Penso che forse dovrò chiamare Mikey Nine del quartiere di Atena, il genio dell'architettura, oppure un ragazzo delle fucine di Efesto per aggiustarmi la casa...".
L'odore improvvisamente diffuso dalla finestra della cucina la dissuase dall'andare a chiamare aiuto. "Il dolce è pronto! Alla casa ci penserò domani!" decise rincasando, se nonché notò le bianche galline colorarsi di rosa. Cercando di non mollare la presa al cesto pieno di uova, fece una smorfia di insofferenza.
«Che bontà questi lamponi!» esordì Afrodite camminando nell'aia e affondando i tacchi delle sue belle scarpe fino alle caviglie. Ma non se ne curò. Le galline e altri animali, tranne Mister Jons, le si avvicinarono piegando tutti il capo.
«Buongiorno anche a te mamma!» sospirò Dafny a metà tra l'infastidita e la rassegnata. Chinò il capo sperando di non perdere l'equilibrio e fare una frittata fuori programma.
Afrodite, nonostante la difficoltà causata dai vertiginosi tacchi affondati in un terreno che è meglio non indagare troppo sulla sua costituzione, avanzò elegante e sorridente verso la figlia.
«Mia cara!», le sorrise lei.
«Vuoi entrare? Ho qualcosa nel forno...»
«Ma certo, non vorrei che il tuo dolce rovesciato all'ananas si bruciasse!» intercalò la dea, ma Dafny carpì il sarcasmo. A Mister Jons non andò giù che la sua padrona venisse vessata, per cui si mise in posizione-espulsione-a-propulsione, puntando l'antipatica dea.
«No! Mister Jons! No!» lo ammonì Dafny intuendo il disastro imminente. Ma non fece in tempo a dire che il danno fu già fatto. Il bianco vestito di Afrodite perse il suo candore... facile intuire il perché.
«Oh! Mamma mi spiace! Sono mortificata!» esclamò mascherando un sorrisino.
«Mhm... non fa niente. Sapevo i rischi che correvo».
«Dai, vieni dentro, vedrò di rimediare».
«Una tazza di tè con una porzione di dolce sarà più che sufficiente, cara». La dea non si scompose minimamente. Lo sgradevole incidente fu come se non fosse mai successo. Tuttavia, il posteriore del maiale nero divenne rosa, come le orecchie e la punta del naso.