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By Raven_Cherish

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By Raven_Cherish

AMBER


Avevo sempre pensato a come sarebbe stato tornare, ma se mi avessero detto che avrei avuto paura non ci avrei mai creduto. Certo, era solo una piccola, anzi piccolissima parte, ma c'era e aveva tormentato l'ultima ora del mio volo verso casa.

Casa.

Era strano dirlo, era strano anche solo pensare che stesse accadendo davvero.

Sorrisi, con lo sguardo fisso al finestrino che rifletteva il blu intenso dell'oceano Atlantico, mentre le nuvole, pennellate di bianco e grigio, sporcavano l'orizzonte. Era un confine che sembrava non avere fine... almeno fin quando Gotham non emerse in lontananza, con i suoi giganti di vetro e i ponti che si estendevano come fili d'argento sopra l'acqua.

Il cuore iniziò a battermi in preda alle emozioni più disparate, e quasi mi scoppiò nel petto quando l'aereo iniziò a scendere di quota e riconobbi le strade principali che si snodavano nel tessuto urbano, imbiancate dalla neve che scintillava sotto i raggi del sole. Robinson Park, il cuore verde della città, adesso sepolto da un manto bianco e abbagliante e... casa.
Casa mia. Appannata dalle lacrime che andarono a morire sulla curva delle mie labbra.

E così, nel primo pomeriggio, dopo otto interminabili ore di volo, atterrammo in una Gotham imbiancata dalla neve. 
Inutile negare che la prima cosa che feci fu guardarmi intorno, e inutile negare la delusione quando l'unico volto che riconobbi fu quello di Gordon, che ci venne in contro accogliendoci con un sorriso.

«Bentornati» disse, ma io non gli diedi retta e continuai a guardare alle sue spalle.

Mi guardai intorno anche quando salimmo in auto. Fuori dal finestrino e dietro, prima di ricompormi sul sedile accanto a mia madre che, cogliendo il motivo di quei miei sguardi, mi rivolse un sorriso come a dire "sta tranquilla".

Facile a dirsi, avrei voluto dirle, invece, rimasi in silenzio fin quando, alzando lo sguardo, non mi resi conto che alla guida c'era Gordon. L'unica persona che avrebbe potuto dirmi quello che sui giornali non era stato riportato.

«Chi è stato a trovarlo?» chiesi, sporgendomi in avanti e interrompendo qualsiasi cosa di cui lui e mio padre stavano parlando.

«Amber» mi riprese mio padre, mentre Gordon mi fissò a lungo dallo specchietto retrovisore.

Alla fine, l'avevo letto l'articolo, per ben due volte. Il laboratorio di Aron era stato trovato sottoterra, in una base segreta che risaliva ai tempi della guerra. La polizia aveva seguito dei camion che appartenevano alla Brooker Construction Group e che, a quanto pareva, nel cuore della notte rifornivano il laboratorio di quello di cui aveva bisogno. Tuttavia, sapevo c'era qualcosa che i giornali non dicevano. E io dovevo sapere.

«Pare che ci sia un nuovo vigilante in città.»

«Un altro?» domandò mio padre.

Io, invece, mi accigliai. «Chi è?»

Gordon scosse la testa. «Non lo so, è apparso pochi giorni fa.»

Tornai ad appoggiarmi al sedile e per un attimo rimasi a fissare il vuoto. «Non si sa nient'altro?»

«Nightwing» mi rispose, «È così che si fa chiamare» continuò, «Ma non so altro, mi spiace.»

Nightwing.

Ripetei quel nome nella mente e inevitabilmente sorrisi.

Non avevo bisogno di altro.

Volevo fare così tante cose che non sapevo da dove partire. O forse inconsciamente lo sapevo, perché la prima cosa che avevo fatto quando avevo messo piede in camera, oltre all'essermi buttata sul letto e aver affondato la testa nel cuscino, era stato mettere in carica il mio vecchio telefono. Ma probabilmente la batteria era andata, perché da quando l'avevo collegato alla corrente non aveva ancora dato segni di vita.

Sdraiata sulle coperte con il viso rivolto al soffitto, picchiettai l'indice sullo schermo, come se quel gesto avrebbe potuto cambiare qualcosa e, proprio mentre allungavo il braccio per staccare la presa, ecco che sullo schermo apparve il logo d'accensione.

Mi raddrizzai con un colpo di reni e mi misi seduta, a gambe incrociate, e quando il telefono si accese del tutto, le notifiche dei messaggi e delle chiamate che quel giorno Dick ed Emma mi avevano fatto non tardarono ad arrivare.

Aprii la chat con Emma, e rimasi sorpresa nel vedere che l'ultimo messaggio non risaliva al giorno della mia partenza, ma al ventiquattro di luglio.
Il mio compleanno.
Emma mi aveva fatto gli auguri, e scritto un semplice "Spero di rivederti presto. Manchi tanto" che però bastò a farmi riniziare a piangere.

"Accetteresti il grazie anche se con qualche mese di ritardo?" le scrissi con le mani che mi tremavano, cosa che, una volta aperta la chat con Dick non ebbi il coraggio di fare.

Mi bloccai, rimasi a fissarla e di nuovo quei pensieri scivolarono tra le scissure del cervello.
E se fosse cambiato qualcosa in questi mesi? L'idea mi terrorizzava al punto da non riuscire neanche a poggiare le dita sulla tastiera. In fondo in aeroporto non c'era venuto... e lui sapeva che ero tornata.

Sospirai, mi feci una doccia al volo per lavare via quei pensieri e scesi al piano di sotto, dove il biocamino crepitava nell'aria illuminata morbidamente dai faretti incastonati nel soffitto.

«Vado a fare un giro» dissi ai miei, poi uscii di casa con il telefono stretto nella mano.

E così mi ritrovai a camminare per le strade innevate di Gotham, che, tra le vetrine a tema allestite dai negozi, i mercatini di Natale e le luci colorate con cui erano stati addobbati, pareva più una sorta di paese delle meraviglie.

Tra l'altro, per quanto breve, quello era il mio momento preferito della giornata: quando il mondo si spegneva e le luci si accendevano e tutto sembrava... rallentare.

Senza accorgermene, arrivai al Rockfeller Center, dove l'enorme albero di Natale, che ogni anno veniva allestito in prossimità della più famosa pista di pattinaggio della città, svettava in tutta la sua altezza attirando gli sguardi di grandi e piccini.

Sembrava di essere in un film e io in quel momento me ne sentivo l'indiscussa protagonista.

Svoltai l'angolo, dove un uomo che suonava il sax, un brano jazz degli anni 80', un mix di nostalgia e vitalità, un richiamo al passato che si faceva strada nel presente, tra il gelo e i sospiri dei passanti.
Rimasi qualche secondo, poi proseguii se pur non avessi una meta, soltanto il sorriso sulle labbra e la meraviglia negli occhi.

Avevo lasciato una città grigia, e ne avevo ritrovata una bianca.

Molti non amano l'inverno di Gotham, quando il freddo diventa così pungente da penetrarti nelle ossa. Io ero tra questi, non l'avevo mai apprezzato, tuttavia, dovevo ammettere che quei mesi avevano il loro fascino. Il fascino silente di una città calma, come se tutto avvenisse a rallentatore. E poi, c'era qualcosa che incantava nella neve quel giorno, nel modo in cui cadeva e aveva ricoperto la città. E quando sollevai gli occhi al cielo lo capii. Non stava cadendo, stava fluttuando nell'aria e smorzando ogni angolo, e nulla poteva sfuggirgli.

Central Park con la neve, invece, era proprio come lo ricordavo: fiabesco. Ne rimanevo incantata ogni volta, non per niente era il mio posto preferito, qualsiasi fosse la stagione.

Gli arbusti, le panchine e i rami degli alberi erano interamente ricoperti dalla neve. Sui sentieri c'era qualche coppia che passeggiava. I laghi ghiacciati si erano trasformati in piste di pattinaggio e le colline in piste per lo sledding. Qualcuno aveva persino fatto un pupazzo di neve.

Il respiro mi si condensò davanti al viso in una nuvola di vapore, e in quel frangente mi accorsi che tutti avevano qualcuno accanto, tutti tranne me.

Tirai fuori le mani dalle tasche del cappotto, e con esse il telefono. Ormai, la notte era calata quasi del tutto, ed Emma non mi aveva ancora risposto, così decisi di recarmi da lei.

Il taxi mi lasciò sotto casa sua e quando suonai chiunque mi aprii lo fece senza neanche chiedere chi fosse. Presi l'ascensore, e quando le porte si dischiusero sul pianerottolo non trovai Emma ad aspettarmi sull'uscio di casa, bensì sua madre, che nel vedermi spalancò gli occhi e si portò una mano davanti alla bocca. Il tempo di realizzare e mi corse incontro con gli occhi lucidi, avvolgendomi le braccia intorno alle spalle quando mi fu vicino.

Sorrisi, e ricambiai l'abbraccio con la stessa velocità.

«Quando sei tornata? Emma lo sa? Mi sei mancata, lo sai vero? Questa casa non è la stessa senza te. Senza voi, i pasticci in cucina e i film a tutto volume.»

«Anche tu mi sei mancata» le dissi mentre mi staccavo dall'abbraccio. «E comunque hai dimenticato i pigiama party.»

«Giusto!» replicò lei.

«Sono tornata oggi, e no Emma non lo sa, le ho mandato un messaggio ma non l'ha ancora letto. Pensavo di farle una sorpresa venendo qui» le spiegai, e in quel momento notai quanto fosse elegante. Si era truccata. Aveva fatto le mèches ai capelli, di qualche tono più chiaro, e il solito mollettone con il quale li teneva legati aveva lasciato il posto a ciocche che le ricadevano morbide e vaporose sulle spalline di un tubino verde scuro che le arrivava al ginocchio. E a completare il tutto c'erano delle scarpe con il tacco abbinate al vestito e un sottile girocollo d'oro.

Non ricordavo di averla mai vista così. «Sei bellissima!» esclamai e lei mi sorrise.

«Emma è da Noah, passerà la vigilia con la sua famiglia» m'informò e io mi accigliai.

Chi è Noah? Mi chiesi, e quella domanda mi si stampò in viso, perché Olive mi rispose senza che l'esprimessi a voce.

«Noah è il ragazzo di Emma.»

Cosa? Emma... fidanzata?

«Sono sicura che te lo presenterà non appena ne avrà l'occasione. E sì, non ci credevo neanche io. Quando me lo ha detto pensavo fosse uno scherzo.»

Già, mi ritrovai a pensare, e soltanto in un secondo momento capii che, se Emma era da questo Noah, lei... «Aspetti qualcuno» constatai, anche se me ne pentii l'istante dopo. Olive mi aveva vista crescere, ma questo non significava che potevo intromettermi nella sua vita privata. Tuttavia, lei mi sorrise, dissipando ciò che avevo appena pensato.

«Dici che sono vecchia? O che questo outfit» si guardò, «Sia troppo?»

Scossi la testa, «Non sei vecchia, e stai benissimo, credimi.»

In quel momento le porte dell'ascensore si aprirono, e ne uscì un uomo con indosso uno smoking nero e un mazzo di rose rosse in mano. Avanzò di qualche passo e si bloccò quando ci vide, o meglio, si bloccò quando la vide, perché i suoi occhi erano fermi sulla madre di Emma, e lei a stento tratteneva il sorriso.

«Ho... suonato alla vicina» disse lui, indicando con il pollice la porta della casa accanto, «Volevo farti una sorpresa ma... direi sei tu che l'hai fatta a me.»

A quel punto il sorriso sulla bocca di Olive si allargò, «Sorpresa riuscita» gli rispose, poi gli si avvicinò e si girò verso di me. «Poul, lei è Amber, la migliore amica di Emma. Amber lui è Poul.»

Lui mi tese la mano e io l'afferrai. «È un vero piacere conoscerti. Emma mi ha parlato molto di te» mi disse. Aveva i capelli sulle tempie leggermente brizzolati e gli occhi di un verde scuro. «Ti unisci a noi?»

Rifiutai l'invito con un cenno del capo e ringraziai. «Sono passata soltanto per dare gli auguri» dissi e a quel punto salutai entrambi e tornai in strada.

Olive frequentava un uomo. Emma, che non aveva mai voluto una relazione in vita sua, si era fidanzata. Fidanzata!
Stentavo a crederci, e allo stesso tempo non potevo far a meno di pensare a cos'altro era cambiato durante la mia assenza.

Presi il telefono, aprii la chat con Dick e mentre scorrevo verso l'alto mi ritrovai a inspirare e a trattenere il respiro nel rivedere gli ultimi messaggi che ci eravamo mandati. Avevo il disperato bisogno di sapere se anche quello era cambiato, ma mi accorsi di essere più spaventata all'idea di scoprirlo, così mi rimisi il telefono in tasca, insieme alla mia codardia e mi avvicinai alla strada. Salii sul primo taxi disponibile e diedi al tassista l'indirizzo di casa.

Erano passate due ore da quando ero uscita. Dopo il viaggio avrei dovuto sentirmi esausta, invece, mi sentivo così bene che avrei potuto camminare ancora per ore. Ma fuori era diventato buio, altro motivo per il quale l'inverno non mi piaceva in particolar modo: in quei mesi le giornate erano così corte che sembrava non avessi il tempo di fare nulla. Anche se nel periodo di Natale, più il buio avanzava, più la città splendeva.

Girai il viso verso il finestrino. Le strade avevano iniziato a sfollarsi in vista del pranzo della vigilia, piombando in una strana e surreale quiete per quella che era Gotham.

All'improvviso, il telefono mi vibrò nella tasca del cappotto, lo tirai fuori pensando che fosse Emma, invece, era soltanto mia madre che mi chiedeva dove fossi.

Le risposi che ero in taxi, per strada, e tornai a osservare la città che scorreva davanti ai miei occhi.

Mi sentivo bene, eppure c'era qualcosa che ancora mi mancava, e sapevo anche cosa.

Mi morsi le labbra, le schiusi, poi me le rimorsi di nuovo e ripetei la cosa da capo. Fu così per tutto il tragitto. Avevo quell'indirizzo sulla punta della lingua, eppure non riuscivo a pronunciarlo. E me ne pentii, non appena arrivai sotto casa e scesi, per questo provai a richiamare il tassista gridando un: «Aspetta!» ma quello, come ogni mio gesto, si rivelò inutile.

Era troppo tardi.
Se n'era andato.
Forse era così che dovevano andare le cose.

«Sono a casa» annunciai mentre aprivo la porta, ma non appena superai il muro mi bloccai. Le chiavi mi scivolarono di mano e io rimasi così, con gli occhi agganciati a quella figura di spalle che, all'improvviso, si girò.

Qualcuno ha detto interrompere sul più bello? 🤣
Okay, vi aspetto su Ig per parlarne ♥

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