99 TᕼIᑎGᔕ I - ᖇITOᖇᑎO ᗩᒪᒪE Oᖇ...

By Bkhatrine

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99 Things I è una storia di nuovi inizi, di un ricominciare e di un ripetersi di vite nella speranza di poter... More

ᑭᖇOᒪOGO |ᒪ'IᑎIᘔIO ᗪEᒪᒪᗩ ᖴIᑎE|
ᑕᗩᑭITOᒪO 1 |ᘔOᑎᗩ ᑕOᗰᖴOᖇT|
ᑕᗩᑭITOᒪO 2 |Iᒪ ᑕᑌᗷO|
ᑕᗩᑭITOᒪO 3 |ᖴIᑎE ᘔOᑎᗩ ᑕOᗰᖴOᖇT|
ᑕᗩᑭITOᒪO 4 |ᒪᗩ ᔕᑕEᒪTᗩ|
ᑕᗩᑭITOᒪO 5 |ᒪᗩ ᖴOᒪᒪᗩ E Iᒪ ᑕᗩOᔕ|
ᑕᗩᑭITOᒪO 6 |ᑎᑌOᐯI ᑭEᖇᑕOᖇᔕI IᑎEᔕᑭᒪOᖇᗩTI|
ᑕᗩᑭITOᒪO 7 |Iᒪ ᖇEGᗩᒪO|
ᑕᗩᑭITOᒪO 8 |ᒪE ᗷᗩᗰᗷOᒪE|
ᑕᗩᑭITOᒪO 9 |ᑭ.O.ᕼ.ᑌ.I|
ᑕᗩᑭITOᒪO 10 |TᕼE ᗰᗩᗪᔕ&ᗰᗩᑎK|
ᑕᗩᑭITOᒪO 11 |ᗰOᖇᗩᒪE ᗪEᒪᒪᗩ ᖴᗩᐯOᒪᗩ|
ᑕᗩᑭITOᒪO 12 |ᒪᗩ ᐯOᒪᑭE O Iᒪ ᒪEOᑎE?|
ᑕᗩᑭITOᒪO 13 |ᑎ• 88|
ᑕᗩᑭITOᒪO 14 |ᑎOᑎ è ᔕᑌᑕᑕO!|
ᑕᗩᑭITOᒪO 15 |Iᒪ ᔕEᑎᔕO ᗪEI ᖴIOᖇI|
ᑕᗩᑭITOᒪO 16 |ᒪEI è ∞|
ᑕᗩᑭITOᒪO 17 |ᔕTEᖴᗩᑎ - IO TI ᐯEᗪO!|
ᑕᗩᑭITOᒪO 18 |ᔕTEᖴᗩᑎ - ᑎ° 3036|
ᑕᗩᑭITOᒪO 19 |TᑌTTO ᑕOᗰE ᑭᖇIᗰᗩ...|
ᑕᗩᑭITOᒪO 20 |ᒪE ᑕOᒪOᗰᗷE|
ᑕᗩᑭITOᒪO 21 |ᑌᑎ ᑭEᘔᘔO ᗪI ᗰE|
ᑕᗩᑭITOᒪO 22 |ᖇEᗩᘔIOᑎE ᗩ ᑕᗩTEᑎᗩ|
ᑕᗩᑭITOᒪO 23 |ᑭEᖇᑕᕼé ᑎOᑎ ᑕOᑎ ᗰE?|
ᑕᗩᑭITOᒪO 24 |ᗰE ᑎE ᐯᗩᗪO?|
ᑕᗩᑭITOᒪO 25 |ᔕTᗩᑎᗪ-ᗷY|
ᑕᗩᑭITOᒪO 26 |ᒪE ᑕOIᑎᑫᑌIᒪIᑎE|
ᑕᗩᑭITOᒪO 27 |Iᒪ ᒪᗩᗪᖇO ᗪI ᑌOᐯᗩ|
ᑕᗩᑭITOᒪO 28 |Iᒪ ᔕIGᑎIᖴIᑕᗩTO ᗪEᒪᒪE ᔕTEᒪᒪE|
ᑕᗩᑭITOᒪO 29 |ᔕTEᖴᗩᑎ - ᑕᕼI ᔕᗩᖇò ᒪO ᗪEᑕIᗪO IO!|
ᑕᗩᑭITOᒪO 30 |ᔕTEᖴᗩᑎ - ᒪE OᖇIGIᑎI|
ᑕᗩᑭITOᒪO 31 |ᔕTEᖴᗩᑎ - Iᒪ ᑭEᘔᘔO ᗰᗩᑎᑕᗩᑎTE ᗪI TE|
ᑕᗩᑭITOᒪO 32 |ᔕTEᖴᗩᑎ - ᔕEᑎᔕᗩᘔIOᑎI ᑎᑌOᐯE, ᗰᗩ ᑎOᑎ TᖇOᑭᑭO.|
ᑕᗩᑭITOᒪO 33 |EᔕIᔕTE! Iᒪ ᗪEᔕTIᑎO IᑎTEᑎᗪO.|
ᑕᗩᑭITOᒪO 34 |TᑌTTO ᑎᑌOᐯO ᑭEᖇ ᗰE!|
ᑕᗩᑭITOᒪO 35 |ᒪ'EᐯOᒪᑌᘔIOᑎE|
ᑕᗩᑭITOᒪO 36 |ᒪEI ᖇEᔕTᗩ, E ᑭᑌᖇE ᒪᑌI!|
ᑕᗩᑭITOᒪO 37 |ᒪᗩ ᖴᗩᗰIGᒪIᗩ|
ᑕᗩᑭITOᒪO 38 |ᔕTEᖴᗩᑎ - È ᗩ ᑕᗩᔕᗩ!|
ᑕᗩᑭITOᒪO 40 |ᑎ°3000|
ᑕᗩᑭITOᒪO 41 |ᒪ'EᖴᖴETTO ᗪEᒪᒪ'ᗩᗰOᖇE|
ᑕᗩᑭITOᒪO 42 |ᒪᑌI è ᗩᒪ ᔕIᑕᑌᖇO!|
ᑕᗩᑭITOᒪO 43 |ᗰEᘔᘔᗩᑎOTTE E TᖇE ᗰIᑎᑌTI|
ᑕᗩᑭITOᒪO 45 |ᔕTEᖴᗩᑎ - ᒪᗩ ᐯIᑕIᑎᗩ|
ᑕᗩᑭITOᒪO 46 |ᒪ'ᗩᑭᑭᗩᖇTᗩᗰEᑎTO ᗩᒪ 3• ᑭIᗩᑎO|
ᑕᗩᑭITOᒪO 47 |Iᒪ ᖇITOᖇᑎO ᗪI EᗰIᒪIᗩ|
ᑕᗩᑭITOᒪO 48 |Iᒪ ᗷᗩᑕIO ᔕᑌᒪᒪᗩ ᖴᖇOᑎTE|
ᑕᗩᑭITOᒪO 49 |ᑕI ᖇIᐯEᗪᖇEᗰO ᗩᑎᑕOᖇᗩ...|
ᑕᗩᑭITOᒪO 50 |I ᑎOᑎᑎI ᑭᗩTEᖇᑎI|
ᑕᗩᑭITOᒪO 51 |ᗩᗪᗪIO OᖇIGIᑎI|
EᑭIᒪOGO
ᖇIᑎGᖇᗩᘔIᗩᗰEᑎTI
[TᖇᗩIᒪEᖇ E ᑎEᗯᔕ]
|ᗷOᒪᒪIᑎI|

ᑕᗩᑭITOᒪO 39 |ᑎOᑎ ᒪᗩᔕᑕIᗩᖇE ᒪᗩ ᗰIᗩ ᗰᗩᑎO|

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By Bkhatrine

Sono in sella alla vecchia moto attaccata a papà e stiamo andando a Balti, la città più grande nelle vicinanze di Singerei. È una città che somiglia molto alla capitale anche se qui regna la lingua russa, mentre nell'altra andava di tendenza il rumeno. Papà sfreccia divertito come un bambino, schivando buche e sorpassando carri pieni zeppi di fieno umidiccio. Non ho mai avuto paura con lui accanto, semplicemente perché ci ero abituata.

*

Fin da piccola, papà custodiva la passione per ogni tipo di motore e una volta, tornando dal suo lavoro temporaneo in Siberia, aveva portato un motore di moto a casa con sé. Lui era un tipo che si vantava spesso, anche all'epoca, e nel viaggio di ritorno insieme ai suoi compagni di carrozza, nonché abitanti della stessa Ciulucani dov'era nato, si era lasciato andare dopo shottini e shottini di liquido amaro.

Aveva raccontato loro che lo aveva rubato, non resistendo alla tentazione di avere una moto tutta sua. Inutile dire che i tre individui si presentarono a casa nostra la stessa notte. A mezzanotte in punto, il cancello azzurro sbatté talmente forte che aveva svegliato me e mamma dal sonno profondo. Papà si era alzato dopo un paio di colpetti che la mamma gli diede sulla spalla. Si sentivano delle voci sul terrazzino e una torcia illuminava l'interno dell'unica stanza riscaldata della casa.

Papà, ancora assonnato, era uscito in mutande a controllare mentre io e mamma ci eravamo nascoste sotto la finestra, accovacciate a terra come vestiti smessi. Lei tremava, io no. Avevo paura certo, ma credevo con tutta me stessa che il mio papà era l'uomo più forte che conoscessi. Fino ad allora. I momenti che susseguirono erano crudeli ai miei occhi. La mamma non voleva guardare, ma io ero troppo curiosa.

«Devi darci il motore!» Disse uno dei tre. Avevano dei cappucci in testa, vedevo solo gli occhi in penombra e la bocca muoversi crudele. «Devi darcelo ora, hai capito?» Urlava l'altro più alto con la pancia sporgente. Il terzo era dietro papà e si muoveva lentamente. Un colpo secco fece inginocchiare papà, che sbatté le ginocchia sull'asfalto. Uno dei tre allora tirò fuori un coltello affilato; in quel momento un urlo mi sfuggì dalla bocca. La mamma si affrettò a tapparmi la bocca, ma non si alzò da terra, non voleva vedere. Uno di loro allora incrociò il mio sguardo nel buio e con la torcia mi accecò prima di entrare nella veranda.

Sbatté più e più volte i pugni sulla porta, ma la mamma aveva chiuso il lucchetto e non mi ero accorta. Il tipo urlava ancora, ma non era rivolto a noi. Era tornato indietro e stava dando dei colpi in testa a papà dicendogli di aprire la porta o di dargli il motore. Solo a quel punto mamma urlò in lacrime da dietro la finestra. «Dagli quel dannato motore Giorgio! Ti prego!» Papà né guardò né alzò lo sguardo, era immobile e io avevo paura per lui.

Avrei voluto farmi grande più di tutti loro messi insieme e schiacciarli come moscerini, ma ovviamente non potevo. Ero lì dietro quella finestra appannata e piangevo lacrime di coccodrillo, implorando fuori e dentro la mia mente che non gli facessero del male. La mamma mi teneva per le gambe, accasciata sotto di me. Io ero più forte di lei e volevo sapere cosa stessero facendo all'uomo della mia vita.

«Siete ridicoli ragazzi!» Rideva papà. Perché ride? Li conosce? Mi chiedevo. Il primo sferrò un colpo in faccia a papà con il manico del coltello e lui fece una smorfia incomprensibile, sputava sangue, ma continuava a ridere. «Emilia, chiama Valentina!» Urlò allora e all'improvviso succedette il caos. Mamma si alzò da terra in panico, raggiunse la cornetta del telefono e con mani tremanti fece ruotare tre numeri sull'apparecchio, ma io ero scioccata da ben altro. Papà si era alzato di colpo e ora stava facendo a pugni con quei tre.

Sferrava colpi talmente forti che uno cadde dai tre gradini, atterrando sul tronco dell'albero davanti casa. Quello con la torcia si affrettò a tenerlo da dietro mentre il più grosso di tutti iniziava a colpirlo in pancia regolarmente. Un paio di minuti dopo si sentì in lontananza la sirena della polizia e mamma era di nuovo accanto a me. Aveva chiamato la vicina, sua amica, e le aveva detto di chiamare la polizia e spedirla da noi. Non capivo perché non lo avesse fatto lei, avrebbe risparmiato qualche colpo a papà.

La mia faccia era attaccata del tutto al vetro e i tre criminali erano scappati, mentre papà era ancora accasciato a terra. La mamma era già uscita, ma non mi ero accorta nemmeno di questo. Li vedevo entrambi davanti a me attraverso il vetro, ma non avevo il coraggio di uscire. E se tornassero? Mi chiedevo. La volante della polizia inchiodò davanti casa, illuminando il portico di blu. Papà si alzò da terra tenendosi la pancia.

La mamma lo accompagnò alla macchina. Parlarono e poi la polizia andò via. Infine, come se niente fosse successo, tornammo a letto. Nessuno mi parlò, non dissero niente.

*

Mi aggrappo ancora più forte alla pancia di papà e mi lascio accarezzare dal vento gelido fino a Balti. La strada è una sola e porta direttamente in città. È una strada lunga chilometri e chilometri che passa attraverso Prepelita, dove vive il padre biologico di mia madre, e raggiunge Singerei subito dopo Banesti, poi si estende fino a Balti. Un'unica strada che percorrono tutti. È difficile perdersi.

«Siamo arrivati!» Mi sussurra mio padre quando frena del tutto. Mi ero addormentata sulla sella di una moto, ecco quanto mi fidavo di lui.

Quando mi fa scendere, tenendomi in braccio come una bambina piccola, le persone attorno al mercato si girano a guardare e sento farfugliare "ma non si vergogna" e "che viziata, non è più una bambina". Mi arrabbio, ma non lo do a vedere perché so che non mi conoscono e non sanno quanti momenti come questo mi sono persa negli anni. Ne avevo davvero bisogno. Prendo la mano di papà e lui mi dice di non lasciarla in nessun caso. Nessuno.

«Dobbiamo stare sempre attaccati qui, nel caos della folla potrei perderti e ci manca solo che qualche rom ti rapisca per farti fare l'elemosina sulla strada.» Ascolto, ma non guardo, le sue parole mi arrivano nitide come un'informazione utile e allo stesso tempo spaventosa. Il mercato di Balti straripa di gente in qualsiasi orario della giornata. Solo il sabato e la domenica ci sono le auto in vendita, nel grande parcheggio di fianco al mercato. Papà mi trascina facendo a zigzag tra la gente che contratta prezzi già stracciati di vestiti arrivati dalla Turchia e dall'Ungheria.

Noto con rammarico, man mano che ci addentriamo nel ciclone della folla, che agli angoli degli incroci angusti sostano dei bambini senza scarpe che con la mano tesa recitano la medesima frase ad ogni passante: «Ti prego, dammi qualche moneta, muoio di fame!» La frase mi entra direttamente nel cuore che si scioglie all'istante come ghiaccio al sole. «Papà aspetta.» Dico tirandolo per il braccio. Lui non mi sente.

«Papà aspetta!» Dico più forte e lui si ferma di colpo, provocando sdegno ai passanti dietro di noi. «Che c'è piccola Khat?» Mi chiede quando è in ginocchio davanti a me. «Devo fare una cosa!» Dico tirando fuori dalla tasca gli ultimi due lei rimasti dalla settimana scorsa. «Vieni con me però.» Lo imploro, ma lui è già in piedi con la mano nell'altra mia mano libera. Armata di quegli spiccioli, torniamo indietro dove poco prima avevo visto una bambina in lacrime seduta sull'asfalto, all'angolo della bancarella di dolciumi.

«Ciao, come ti chiami?» Chiedo sorridendo a quel visino rigato di lacrime miste alla polvere. Avrà all'incirca sei anni, l'età che avevo io quando mia madre era partita per l'Italia. Il suo sguardo triste mi ricordava molto la me bambina che osservava mamma salire sul piccolo pullman giallo per poi sparire per un anno e mezzo. «Che fai Khat? Lascia stare! Non darle niente.» Papà mi sgrida, ma io sono già con la mano tesa e le porgo i due lei. Lei li prende dubbiosa e poi me li restituisce dicendomi solo: «Mangiare!» Io capisco al volo e guardo papà che con fare arreso si rivolge a me.

«E va bene cuore d'oro. Andiamo a prendere da mangiare a questa bambina, se ti renderà felice. Ma che sia solo lei, capito?» Mi punta il dito contro, ma sorride. «Va bene, solo lei promesso!» Accetto arresa. La prima bancarella che troviamo con cibo commestibile è molto indietro rispetto a dove siamo ora, ma papà non si scoraggia e mi trascina tra la folla controcorrente. Voci mi arrivano alle orecchie con un pizzico di severità dicendo "maleducati" e "ma dove vanno questi", ma ignoriamo facendoci spazio senza chiedere il permesso. «Cosa le posso dare?» Chiede la donna anziana da dietro il bancone troppo alto. «Vorrei del pane e del formaggio. Grazie.» Le dico. «Per quanto?» Chiede lei alzandosi da quella che dovrebbe essere una sedia. «Faccia una baguette e un panetto di formaggio di capra.» Le dice papà mentre la guarda. «Ma papà, non mi bastano i soldi.» Gli confesso.

«Fa niente tesoro, ci penso io.» Mi arrendo contrariata perché mi sento derubata del bene che voglio fare per conto mio. Lui non si accorge della mia tristezza mentre prende il sacchetto con le compere e si allontana trascinandomi di nuovo dietro a sé. «Ecco qua bambina, ora mangia!» Osservo papà che poco fa non voleva avvicinarsi a quella creatura e invece ora si inginocchia davanti a lei e le spezza il pane con le mani. La bambina prende il formaggio e lo rompe a sua volta per metterne un pezzo dentro alla mollica e schiacciarlo per bene prima di fare un boccone gigante. Mi accorgo che non c'è nemmeno una bottiglia d'acqua attorno a lei e mi allontano di poco per comprarne due con i soldi che avevo.

Quando torno con le bottiglie in mano papà non c'è più. Non mi preoccupo però e mi accomodo di fianco alla bambina dandole l'acqua. Lei mastica lenta, quasi avesse dimenticato come si fa, e prende la bottiglia aperta che le sto porgendo. «Grazie.» Dice infine, dopo aver mangiato le ultime briciole sul palmo della mano. «Come ti chiami piccolina?» Chiedo guardandola negli occhi. Aveva uno sguardo triste, come se le avessero spezzato le ali, prima ancora di imparare a volare. «Non lo so...» Confessa pensierosa. «Tutti mi chiamano rom.» Sorride. Un sorrido triste le copre il viso angelico. Gli occhi verdi sono circondati da occhiaie pesanti, come se non avesse mai conosciuto il riposo. «Ti chiamerò Romina, se ti piace!» Le dico d'istinto. Lei mi sorprende con un abbraccio e mi dice mille grazie attutiti dalla mia sciarpa.

«Ma dov'eri finita? Ti ho cercato dappertutto!» Mi sgrida papà un bel po' dopo. Lo guardo come se fosse impazzito e lui si passa la mano tra i capelli tirando un sospiro di sollievo. «Cos'è quello?» Chiedo indicando la busta nera con il solito calendario stampato sopra. «Ah, visto che non ti trovavo, mi sono sentito in colpa per aver reagito senza cuore di fronte alle tue aspettative di bontà verso i senzatetto.» Dicendo ciò, tira fuori dal sacchetto un paio di scarponi neri. Sorprendendomi, si inginocchia di fronte a noi e prima di infilarle alla bambina ribattezzata da me, le chiede il permesso. Lei acconsente e si lascia trattare come una figlia dal mio papà. Io mi commuovo, ma non mi accorgo di avere il viso rigato come lei poco fa. «Bene, ora possiamo andare Khat?» Mi chiede papà alzandosi in piedi.

«Ho mille commissioni da fare e poi se ti vede la gente lì così, penserà che sei una di loro. Alzati dai!» Mi incita allungandomi la mano. «Non importa ciò che pensano gli altri!» Dico sottovoce, ma lui mi sente. «Sì, hai ragione tesoro! Mi dispiace. Che razza di esempio ti sto dando!» S'incolpa. «Papà, perché non la portiamo alla polizia? Magari i suoi genitori la stanno cercando!» Azzardo. «Khat, abbiamo fatto abbastanza, ti prego. Ora dobbiamo andare.» Ribatte, così mi arrabbio e tanto.

«Abbastanza non è tutto il possibile.» Urlo, ma nessuno si gira stavolta. Lui si zittisce e mi fissa, ma senza severità.

«Alla polizia, eh? E come pensi di portarla su una moto? Saliamo in tre e ci facciamo fare la multa subito arrivati in caserma?» Mi domanda serio, ma noto che sta cedendo. Aspetto, senza alzarmi da terra, quasi volessi ricattarlo che, se non lo avesse fatto, sarei rimasta lì con lei. Lui si accorge della mia determinazione e si lascia andare.

Prima di prendere la bambina in braccio, si guarda due volte attorno, intimorito che qualcuno potesse dirgli qualcosa. Ma nessuno lo fa, nessuno si accorge che portiamo via la bambina, come fosse mia sorella, usciamo dal mercato e ci accomodiamo in tre sulla minuscola moto. Nessuno si accorge che siamo in tre su un sedile che a malapena è abbastanza per uno e nessuno dice niente quando ci nota arrivare come schegge davanti alla caserma di Balti.

Papà mi dice di aspettare sulla moto che ora è parcheggiata con il cavalletto rialzato. Le persone mi fissano, ma poi capisco che non guardano me. Osservano la moto vintage di mio padre. La bambina esce di nuovo dalla caserma, insieme a papà e si dirigono verso di me con passo tranquillo. Mi preoccupo, corrugando la fronte, e solo quando sono abbastanza vicini da sentirmi gli chiedo informazioni.

«Che succede, perché non l'hanno presa?» Dico implorante. «Non funziona così Khat, lei non sa nemmeno come si chiama.» Afferma lui. «Lo so, ma magari hanno denunciato la sua scomparsa!» Imploro ancora. Papà, spazientito, torna dentro e lascia la bambina con me. Lei, che ancora non ha parlato dopo l'accaduto, si siede a terra, quasi fosse quello il suo posto. «Ma che fai? Alzati dai!» La incito, saltando giù dalla moto. La prendo sotto braccio e andiamo a sederci sulle scale, così da sembrare un po' più normali agli occhi dei curiosi che si aggirano nei dintorni.

«Ci siamo!» Dice mio padre uscendo. «Avevi ragione, hanno controllato e risultano diversi bambini scomparsi, ma solo una che abbia all'incirca sei anni. Hanno contattato la famiglia. Sperando che sia quella giusta. Ora dobbiamo aspettare che arrivino. Hanno detto mezz'ora perché sono di un paesino vicino.» La bambina ascolta in silenzio senza comprendere cosa stia succedendo, si nota dal suo sguardo. «Hai visto piccolina, anche tu hai una mamma e un papà!» Le dico sorridendo. Lei mi guarda senza sorridere.

«Ti ricordi qualcosa della tua mamma?» Chiedo insicura. «Mamma... mamma!» Ripeteva, quasi fosse la prima volta che pronunciava parole simili.

Poco dopo eravamo ancora seduti sulle scale in cemento e all'improvviso una vecchia Volga arrugginita si affretta a raggiungere l'entrata con un frenata che fa scivolare le ruote sulla ghiaia. Una donna vestita da contadina e dalla postura stanca si catapulta su di noi, uscendo dal lato passeggeri. «Cristina. Mia piccola bambina! Sei viva! Sei tu?! Cristina?!» La donna si avvicina, cadendo in ginocchio davanti a noi. Papà si affretta ad aiutarla nel rialzarsi.

Un uomo magrolino dal viso triste si materializza dietro di lei. Insieme, guardano la bambina che non ha ancora alzato lo sguardo da terra. Mi stringe la mano facendomi quel poco di male che solo una bambina impaurita può provocare.

«Hai visto? Hai un nome vero. Tu ti chiami Cristina e loro sono i tuoi genitori. I tuoi veri genitori.» Lei mi guarda finalmente e poi insicura guarda la coppia. La donna scoppia in lacrime guardando il marito. «È lei. È la nostra bambina!» Si abbracciano, ma non toccano la bambina che si è nascosta leggermente dietro di me. Allora papà finalmente prende in mano la situazione. Si rivolge ai genitori, chiedendo loro di andare dentro per ritirare la denuncia di scomparsa e di confermare con la carta d'identità che la bambina fosse veramente la loro. Quando rimaniamo di nuovo noi tre, lui si rivolge a lei, come faceva con me da piccola prima di partire per la fredda Siberia.

«Ascoltami piccola Cristina. Hai passato un periodo molto, molto brutto della tua vita. Non so quanto tempo e quanto dolore hai dovuto sopportare, ma ora è tutto di nuovo al suo posto. La tua mamma ti ha cercata per due anni, sai? Loro non hanno mai smesso di cercarti e sai perché?» Lei fa di no con la testa. E lui continua, ora che ha la sua attenzione. «Perché i genitori sono così, loro amano i propri figli più di ogni altra cosa al mondo.» Le dice, ma guarda me. Mi commuovo e mi lascio andare alle lacrime, non mi vergogno mai di piangere davanti a lui. Papà ha gli occhi lucidi, ma continua a parlare.

«Ti ricordi dove stavi prima di oggi?» Azzarda lui. «Baracca! Baracca è casa mia! Lì fratelli e sorelle mie. No mamma, solo papà! Tanti papà! Loro amore.» Dice lei ansiosa. «Quella non è casa tua. Loro non sono i tuoi papà, ti hanno portata via ai tuoi veri genitori, ma ora sei di nuovo insieme a loro!» La corregge prendendola in braccio. Ora sono davanti alla macchina e lui la distrae mostrandole delle cose attraverso il finestrino. Sento a malapena quello che le dice, ma mi concentro.

«Loro ti hanno fatto del male? Tu hai dormito con loro?» Le chiede cauto. «Sì, noi amici. Loro miei papà! Tutti e cinque!» La bambina fa vedere la mano aperta. «Povero piccolo angelo.» A questo punto vedo papà che l'abbraccia. La strige forte a sé, quasi a volerle portar via quel dolore che lei stessa non comprendeva.

La coppia esce dal gelido edificio con un foglio in mano e noto stampato in bianco e nero una fotografia di quella che dovrebbe essere Cristina da piccola. Si avvicinano a me e mi alzo per rispetto. Mi ringraziano e mi dicono che gli abbiamo salvato la vita. Io annuisco gentile e non mi trattengo. «Non so come sia capitato e non voglio saperlo, ma vi avviso che la bambina è stata molestata da più uomini in questi...» Non trovando le parole per le poche informazioni in possesso, la donna continua: «...due anni.» Dice sottovoce, guardandosi i piedi.

Noto che l'uomo fa lo stesso, ma non mi scoraggio. Hanno bisogno che qualcuno li sgridi, anche se queste cose capitano. «Per due anni ha vissuto in una baracca dietro al mercato di Balti, e voi dove l'avete cercata?» Li incalzo pentendomene. Voglio farli sentire in colpa, ma senza farli piangere. «Abbiamo fatto denuncia e abbiamo cercato dove l'abbiamo persa, al concerto di Capodanno in piazza Balti.» Capisco solo ora che la cosa è più grande di me, ma continuo a non scoraggiarmi. Sono in ballo e ho voglia di ballare.

«L'avete cercata solo lì? Voi sapete che i rom sono dappertutto ormai, e sempre più bambini scompaiono in Moldavia. Sapete anche, se siete mai stati al mercato, che lì si aggirano parecchi bambini senza fissa dimora. Perché non avete mai guardato quei bambini per cercare vostra figlia? Lei è sempre stata lì.» Li sgrido, ma il papà si intromette toccandomi la spalla, con la bambina ancora in braccio. Mi calmo, toccandomi la mente con il pollice e l'indice, e fulmino un'ultima volta quei due adulti davanti a me. Hanno appena ricevuto una bella ramanzina da una bambina poco più grande della loro unica figlia.

«Ora tu torni a casa tua ok, piccola Cris?» Papà la incoraggia dandole piccoli colpetti sulla schiena, come si fa con i neonati per il ruttino. La donna si rivolge alla bambina porgendole le braccia aperte. «Vieni Cristina, vieni dalla tua mamma! Andiamo a casa a lavarci e a mangiare!» La incoraggia facendole segno con le mani. La bambina dubbiosa, guarda me un'ultima volta prima di lasciarsi prendere dalla donna che secondo me non ha lottato abbastanza.

«Ciao Cristina, io mi chiamo Viktor e sono il tuo papà!» Lei s'irrigidisce e io lo fulmino sbuffando. Allora lui si corregge. «Non ti farò del male! Andiamo a casa, avrai un letto tutto tuo!» La incoraggia. Lei finalmente parla dopo qualche istante in cui era stata ferma a pensare. «Mamma? Come tu, hai mamma? Questa mia? Tutta mia?» Chiede a me.

Io spalanco gli occhi perché finalmente ha capito. «Sì, come io ho una mamma e un papà, anche tu ce li hai e sono solo tuoi, non li devi condividere con gli altri bambini del mercato!» Le dico incoraggiandola per l'ennesima volta.«Andiamo casa? Io Cristina? Io tanto sonno!» La donna allora scoppia in lacrime miste a gioia e a dolore e si affretta a riempire di baci quel viso zuppo di lacrime, muco e polvere.

Papà si rivolge all'uomo, poco dopo che le due sono in macchina. «Dovete farle un controllo in ospedale, e non aspettate troppo! Potrebbe avere anche delle malattie!» Gli raccomanda. La donna è seduta in macchina con la bambina in braccio che ora si è rilassata sulla sua spalla e socchiude gli occhi. Quando li apre un'ultima volta mima un "grazie Khatrine" con la bocca, ma forse me lo sono immaginata.

«Andiamo piccola Khat! Per oggi basta così!» Mi incita mio padre, poco dopo che la macchina è scomparsa dalla nostra vista.

«Non ancora!» Dico decisa. Lui sbuffa, capendo cosa ho in mente.

*

Le tre auto della polizia sfrecciano per la città di Balti con le sirene che rimbombano sui muri di cemento.

Le persone si scostano dalla strada nelle vicinanze del mercato e le auto imboccano la strada laterale senza frenare, arrivando dove si trovano le baracche dei rom. I poliziotti armati iniziano a perlustrare la zona e ammanettano cinque individui logori dall'aspetto rivoltante. Li caricano nella macchina e li portano via.

Un'ambulanza arriva un minuto dopo con i rinforzi a seguito. Le volontarie insieme ai medici d'urgenza scendono veloci dai veicoli in sosta. Una decina di bambini vengono accompagnati uno alla volta sulle piccole vetture dell'unione sovietica e poi si allontanano, lasciando un silenzio inquietante dietro.

Io e papà osserviamo la scena dall'altra parte della strada, seduti sulla moto. Sorrido pensando che non importa quanti desideri della mia lista perderò per un atto del genere. Se quei bambini avranno anche solo una piccola percentuale di quello che ho io, forse stanotte farò finalmente un bellissimo sogno.

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