99 TᕼIᑎGᔕ I - ᖇITOᖇᑎO ᗩᒪᒪE Oᖇ...

Bởi Bkhatrine

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99 Things I è una storia di nuovi inizi, di un ricominciare e di un ripetersi di vite nella speranza di poter... Xem Thêm

ᑭᖇOᒪOGO |ᒪ'IᑎIᘔIO ᗪEᒪᒪᗩ ᖴIᑎE|
ᑕᗩᑭITOᒪO 1 |ᘔOᑎᗩ ᑕOᗰᖴOᖇT|
ᑕᗩᑭITOᒪO 2 |Iᒪ ᑕᑌᗷO|
ᑕᗩᑭITOᒪO 3 |ᖴIᑎE ᘔOᑎᗩ ᑕOᗰᖴOᖇT|
ᑕᗩᑭITOᒪO 4 |ᒪᗩ ᔕᑕEᒪTᗩ|
ᑕᗩᑭITOᒪO 5 |ᒪᗩ ᖴOᒪᒪᗩ E Iᒪ ᑕᗩOᔕ|
ᑕᗩᑭITOᒪO 6 |ᑎᑌOᐯI ᑭEᖇᑕOᖇᔕI IᑎEᔕᑭᒪOᖇᗩTI|
ᑕᗩᑭITOᒪO 7 |Iᒪ ᖇEGᗩᒪO|
ᑕᗩᑭITOᒪO 8 |ᒪE ᗷᗩᗰᗷOᒪE|
ᑕᗩᑭITOᒪO 9 |ᑭ.O.ᕼ.ᑌ.I|
ᑕᗩᑭITOᒪO 10 |TᕼE ᗰᗩᗪᔕ&ᗰᗩᑎK|
ᑕᗩᑭITOᒪO 11 |ᗰOᖇᗩᒪE ᗪEᒪᒪᗩ ᖴᗩᐯOᒪᗩ|
ᑕᗩᑭITOᒪO 12 |ᒪᗩ ᐯOᒪᑭE O Iᒪ ᒪEOᑎE?|
ᑕᗩᑭITOᒪO 13 |ᑎ• 88|
ᑕᗩᑭITOᒪO 14 |ᑎOᑎ è ᔕᑌᑕᑕO!|
ᑕᗩᑭITOᒪO 15 |Iᒪ ᔕEᑎᔕO ᗪEI ᖴIOᖇI|
ᑕᗩᑭITOᒪO 16 |ᒪEI è ∞|
ᑕᗩᑭITOᒪO 17 |ᔕTEᖴᗩᑎ - IO TI ᐯEᗪO!|
ᑕᗩᑭITOᒪO 18 |ᔕTEᖴᗩᑎ - ᑎ° 3036|
ᑕᗩᑭITOᒪO 19 |TᑌTTO ᑕOᗰE ᑭᖇIᗰᗩ...|
ᑕᗩᑭITOᒪO 20 |ᒪE ᑕOᒪOᗰᗷE|
ᑕᗩᑭITOᒪO 21 |ᑌᑎ ᑭEᘔᘔO ᗪI ᗰE|
ᑕᗩᑭITOᒪO 22 |ᖇEᗩᘔIOᑎE ᗩ ᑕᗩTEᑎᗩ|
ᑕᗩᑭITOᒪO 23 |ᑭEᖇᑕᕼé ᑎOᑎ ᑕOᑎ ᗰE?|
ᑕᗩᑭITOᒪO 25 |ᔕTᗩᑎᗪ-ᗷY|
ᑕᗩᑭITOᒪO 26 |ᒪE ᑕOIᑎᑫᑌIᒪIᑎE|
ᑕᗩᑭITOᒪO 27 |Iᒪ ᒪᗩᗪᖇO ᗪI ᑌOᐯᗩ|
ᑕᗩᑭITOᒪO 28 |Iᒪ ᔕIGᑎIᖴIᑕᗩTO ᗪEᒪᒪE ᔕTEᒪᒪE|
ᑕᗩᑭITOᒪO 29 |ᔕTEᖴᗩᑎ - ᑕᕼI ᔕᗩᖇò ᒪO ᗪEᑕIᗪO IO!|
ᑕᗩᑭITOᒪO 30 |ᔕTEᖴᗩᑎ - ᒪE OᖇIGIᑎI|
ᑕᗩᑭITOᒪO 31 |ᔕTEᖴᗩᑎ - Iᒪ ᑭEᘔᘔO ᗰᗩᑎᑕᗩᑎTE ᗪI TE|
ᑕᗩᑭITOᒪO 32 |ᔕTEᖴᗩᑎ - ᔕEᑎᔕᗩᘔIOᑎI ᑎᑌOᐯE, ᗰᗩ ᑎOᑎ TᖇOᑭᑭO.|
ᑕᗩᑭITOᒪO 33 |EᔕIᔕTE! Iᒪ ᗪEᔕTIᑎO IᑎTEᑎᗪO.|
ᑕᗩᑭITOᒪO 34 |TᑌTTO ᑎᑌOᐯO ᑭEᖇ ᗰE!|
ᑕᗩᑭITOᒪO 35 |ᒪ'EᐯOᒪᑌᘔIOᑎE|
ᑕᗩᑭITOᒪO 36 |ᒪEI ᖇEᔕTᗩ, E ᑭᑌᖇE ᒪᑌI!|
ᑕᗩᑭITOᒪO 37 |ᒪᗩ ᖴᗩᗰIGᒪIᗩ|
ᑕᗩᑭITOᒪO 38 |ᔕTEᖴᗩᑎ - È ᗩ ᑕᗩᔕᗩ!|
ᑕᗩᑭITOᒪO 39 |ᑎOᑎ ᒪᗩᔕᑕIᗩᖇE ᒪᗩ ᗰIᗩ ᗰᗩᑎO|
ᑕᗩᑭITOᒪO 40 |ᑎ°3000|
ᑕᗩᑭITOᒪO 41 |ᒪ'EᖴᖴETTO ᗪEᒪᒪ'ᗩᗰOᖇE|
ᑕᗩᑭITOᒪO 42 |ᒪᑌI è ᗩᒪ ᔕIᑕᑌᖇO!|
ᑕᗩᑭITOᒪO 43 |ᗰEᘔᘔᗩᑎOTTE E TᖇE ᗰIᑎᑌTI|
ᑕᗩᑭITOᒪO 45 |ᔕTEᖴᗩᑎ - ᒪᗩ ᐯIᑕIᑎᗩ|
ᑕᗩᑭITOᒪO 46 |ᒪ'ᗩᑭᑭᗩᖇTᗩᗰEᑎTO ᗩᒪ 3• ᑭIᗩᑎO|
ᑕᗩᑭITOᒪO 47 |Iᒪ ᖇITOᖇᑎO ᗪI EᗰIᒪIᗩ|
ᑕᗩᑭITOᒪO 48 |Iᒪ ᗷᗩᑕIO ᔕᑌᒪᒪᗩ ᖴᖇOᑎTE|
ᑕᗩᑭITOᒪO 49 |ᑕI ᖇIᐯEᗪᖇEᗰO ᗩᑎᑕOᖇᗩ...|
ᑕᗩᑭITOᒪO 50 |I ᑎOᑎᑎI ᑭᗩTEᖇᑎI|
ᑕᗩᑭITOᒪO 51 |ᗩᗪᗪIO OᖇIGIᑎI|
EᑭIᒪOGO
ᖇIᑎGᖇᗩᘔIᗩᗰEᑎTI
[TᖇᗩIᒪEᖇ E ᑎEᗯᔕ]
|ᗷOᒪᒪIᑎI|

ᑕᗩᑭITOᒪO 24 |ᗰE ᑎE ᐯᗩᗪO?|

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Bởi Bkhatrine

Con che coraggio ti permetti di credere di meritare due volte lo stesso tempo a tua disposizione? Non è forse vero che lo stai sfruttando per la seconda volta?  O forse ti credi superiore a tal punto da considerare la cosa normale?! In fondo, sei sempre stata un po'  vanitosa. Quindi dimmi, ne è valsa la pena sprecare il tempo di qualcun'altra?

Era il primo sogno che facevo nella nuova realtà. Eppure sembrava più di un sogno, addirittura un confronto con il mio subconscio. Così lo avrei definito, se non fosse per l'immagine riflessa nello specchio dello stesso bagno dove mi ero tolta la vita allora. Era l'altra me che parlava, ma non con un tono di voce che conoscevo. Era totalmente diverso, come se fosse sempre stato da qualche parte dentro di me e solo ora avesse deciso di fare capolino fuori dal mio corpo. Era invadente, mi sfidava con lo sguardo e mi penetrava, quasi volesse privarmi dell'unica cosa che mi rimaneva: la speranza.

Era fine estate e lo si capiva dal sole che dubitante sorgeva all'alba quasi stufo della vita stessa, eppure era obbligato a farlo ancora per un po'. Ma che cos'è un pò per il sole? Saranno mica miliardi e miliardi di anni in più per noi? Allora perché mai avrei dovuto sentirmi una ladra di raggi solari oppure qualcuno che si cela nella realtà altrui? Del resto ero sempre io.

La mattina dell'ultimo sabato dell'estate del 2003 era troppo frizzante per i miei gusti, talmente frizzante che mi fece dubitare dei precedenti avvenimenti. Non era forse successo di risvegliarmi in mezzo ai fiori o avevo visto male nel realizzare che mio nonno acquisito stesse quasi correndo verso di me con un machete in mano? Era un sogno allora? No, io con credo. Era la pura realtà chiamata Singerei. Non per niente, la nonna mi aveva raccontato le origini del nome di quel maledetto paese.

«Singerei, dividila in due parti, poi trasforma l'ultima E in una A e la I diventerà?» Aveva chiesto lei il giorno prima, mentre eravamo a far pascolare le innumerevoli pecore del vicinato. «Sangue. Sangue cattivo.» Avevo detto traducendo la parola per filo e per segno. «Esatto bambina.» Aveva esclamato Elena con fare teatrale, quasi fosse fiera di essere associata a quel nome. La sua pelle era bruciacchiata dal sole e le dava un'aria ancora più trasandata.

«Ma nonna, questo significa che siamo tutti cattivi noi nati a Singerei?» Chiesi confusa, mentre mi stavo sporgendo alla sorgente trovata in mezzo alle colline che dissetava umani e animali, senza eccezioni.

«No bambina, è una storia lunga che forse non è nemmeno del tutto vera, ma è quello che ci hanno insegnato e tramandato. Quando ci fu la seconda guerra mondiale, i soldati trovarono rifugio qui a Singerei. Erano soldati europei e non erano ben visti dall'unione sovietica ovviamente, ma il popolo di Singerei che all'epoca si chiamava Lazovsk, nome datogli in onore del comunista Sergey Lazo, li aveva ospitati, nutriti e molti di loro si accoppiarono con quei soldati. Così siamo diventati come loro, mantenendo comunque le nostre credenze. Siamo stati soprannominati dai nostri compaesani "sangue cattivo" perché le nostre donne avevano dormito, sposato e amato i tedeschi, gli italiani e altri europei perciò siamo di sangue cattivo, o meglio di sangue misto.» Raccontò la nonna quasi scusandosi mentre si alzava da terra con la sua gobba accentuata.

«Quindi si sono impossessati di Singerei, rendendo le donne prostitute e gli uomini schiavi?» Chiesi pensierosa.

«Non ho mai riflettuto da questo punto di vista.» Disse la nonna voltandosi di scatto verso di me, come a volermi accusare del solo fatto di averlo pensato. Del resto, nessuno osava fare una cosa del genere qui da troppi anni ormai. «Ragazza, ricorda che questa è solo una storia che si racconta in paese. Come quelle che senti alla fontana dell'acqua dalle donne che dicono che le vicine si prendono le botte dai mariti perché li tradiscono.» Disse nonna distogliendo lo sguardo.

«Il che non è vero! Giusto?» Azzardai. «No, ovvio che no!» Il suo scatto verso di me fu brutale e mi afferrò per il colletto di quella camicia azzurra di tre generazioni fa. Mi spaventai, ma senza intimorirmi più del solito. «Capisco.» Era tutto ciò che uscì dalla mia bocca, mentre lo sguardo rimaneva incollato a quegli occhi azzurri come il cielo. «Tua madre ne ha viste di cose nella vita, ma tutto sommato è stata una brava bambina, ragazza e donna!» Aggiungeva man mano che si allontanava da me, rivolgendosi quasi alle pecore. Sapevo che mentiva e che si aspettava il mondo da mia madre, come faceva a sua volta lei da me. E sapevo che avevano torto entrambe.

«La mamma ha solo sopportato ciò che la vita le ha sbattuto in faccia.» Avevo sputato senza pensare. «Pensi che sia colpa mia vero? Dillo.» Mi aveva incalzata lei severa. Sembrava volesse picchiarmi, ma non lo fece. «Cosa conta ciò che penso io nonna? Mia madre si sentirà sempre la figlia nata da un altro matrimonio. Non voluta, non desiderata e forse destinata a non nascere. Ma se non ci fosse lei, non ci sarei io, e questo sarebbe davvero un peccato!» Dissi volontariamente vanitosa. Non m'importava più e sapevo che era meglio così.

«Sei una bambina diversa da come mi aspettavo.» Aveva balbettato Elena, sedendosi finalmente accanto a me sul prato esteso per chilometri. «Nonna, non sono né diversa né speciale, sono semplicemente come avrei dovuto essere, e se la mamma è qui, è perché è così che doveva andare. Pensa solo se non ci fosse stata!»

La nonna si prese il tempo necessario, troppo per i miei gusti, e si perse nell'orizzonte per poi tornare alla realtà con un'unica frase. «Se non ci fosse stata Emilia, non ci sarebbe stata nessun'altra dopo di lei.» Era la verità: mia madre aveva spinto Elena a vivere ed era l'unica cosa di cui aveva bisogno in quel momento. Sapevo che questa frase non doveva dirla a me, ma alla sua primogenita. Solo così avrebbe ringraziato sua figlia per il sacrificio che aveva fatto.

«Sai bambina, casa Tabarcea non fa per te. È un posto che ti logora dentro. Che ne dici se ti spedisco all'appartamento della tua bisnonna?» Aveva detto all'improvviso la nonna senza nemmeno guardarmi. Era ancora dispersa con lo sguardo sulle colline dove spesso avevamo passato i pomeriggi. «Ma perché nonna? Io non voglio lasciarti sola!» Avevo insistito. «Perché lo dico io. E sono più grande di te.» Ma non più saggia, avrei voluto obiettare, anche se rimasi zitta sapendo che voleva solo proteggermi da altri brutti ricordi.

«Bambina, torna a casa e prendi qualcosa da mangiare per entrambe, io intanto schiaccio un pisolino con le pecore.» Aveva insistito la nonna accasciata a terra quasi mimetizzata insieme alle pecore già da tosare. Così, in silenzio, mi ero diretta verso casa, attraversando senza perdermi l'inizio particolare del paesaggio selvaggio che tra meno di un anno avrei dovuto lasciare al passato.

A maggio dell'anno prossimo sarei partita per l'Italia e sarei tornata in Moldavia solo in rare, rarissime occasioni, dimenticandomi delle cose oscure e lasciando impressi solo i colori dell'arcobaleno. Ero fatta così: trattenevo i colori e scacciavo i fantasmi. Se non fosse stato per questo mio talento, non sarei arrivata nemmeno a ventinove anni di vita, con tutto quello che avevo passato e considerando la mia anima debole. Ero immersa per metà nelle tenebre del bosco e per l'altra metà bruciata dai raggi solari. La tiepida temperatura stava leggermente scendendo lasciando della brezza fresca nell'aria.

Ero inconsapevolmente felice di osservare i miei piedi che, metro dopo metro, si oltrepassavano l'un l'altro. Ogni tanto alzavo lo sguardo e controllavo dietro, davanti e intorno a me, convinta che dopotutto poteva sempre esserci un pericolo nei dintorni. Solo nell'avvicinarmi verso la collina che dava sulla casa della famiglia Tabarcea, avevo notato Dana e suo fratello seduti su una coperta proprio davanti casa nostra, sotto l'ultimo albero della boscaglia.

«Ma ciao piccola Khat, è un po' che ti vediamo in giro, ma non ci hai mai salutato.» Aveva detto il fratello di Dana con fare scherzoso. Non mi piaceva il suo modo di scherzare, mi ricordava un ubriacone mascherato da clown. Decisi di ignorarli e continuai per la mia strada. Ancora cinque passi e avrei attraversato il portico di casa.

«Ti ho vista spesso in giro, sai? Siamo vicine di casa, eppure hai fatto sempre finta di ignorarmi.» Aveva aggiunto Dana quasi disperata nel rincorrermi dietro. Le avevo chiuso il cancello in faccia, quello fatto di travi di legno dipinte di bianco. Cercavo di non pensare a quella famiglia che abitava solo due case sopra, nella stessa via di mia nonna. Cercavo di non ricordare come nell'altra vita mi avrebbero presa in giro semplicemente perché provavo dei sentimenti più sinceri di quelli che avrebbero mai provato loro.

Cercavo invano di scacciare ogni pensiero, colpendomi forte sulla testa con i pugni chiusi, ma invano, perché un attimo dopo era riaffiorato tutto come una cascata ed era talmente potente che sentivo il getto dell'acqua trapassarmi il cervello e arrivare al midollo spinale. Aveva una furia spaventosa e non aveva intenzione di fermarsi per risparmiarmi la vergogna di provare sentimenti.

Il mio primo incontro con Dana era stato nel bosco dietro casa di mia nonna. Avevamo all'incirca otto anni e mi trovavo spesso da mia nonna nel fine settimana, così girovagavo spensierata per il bosco senza allontanarmi troppo. Sono una frana anche con l'orientamento. Dana era apparsa dietro di me spaventandomi mentre raccoglievo delle bacche rosse. «Bu!» Aveva urlato. Senza voltarmi, le feci l'eco di una risata forzata. «Ah ah, che spavento! C'è di peggio di cui aver paura al mondo, invece che di una ragazza.»

Lei si era avvicinata e con un colpo forte aveva rovesciato le bacche dalla mia mano. «Non le puoi mangiare queste. Sono velenose.» Mi aveva detto severa. «Infatti non le volevo mangiare.» Le rispondo secca. «E allora a cosa di servono scusa?» «Ho visto fare una volta il colore da mio padre e volevo provare.» «Provare?» Chiese arricciando il piccolo naso. «Voglio usarle la polpa come inchiostro per disegnare qualcosa.» «Posso darti una mano? In fondo è colpa mia se ora devi ricominciare daccapo.» È così che è nata la nostra amicizia.

Quel pomeriggio siamo rimaste fino a tardi a preparare l'inchiostro rosso sangue e poi il giorno dopo ci siamo svegliate presto, abbiamo messo delle coperte sotto il primo albero del bosco e abbiamo iniziato a colorare e inzuppare ogni foglio a nostra disposizione. Poi le settimane successive, quando tornavo da mia nonna, Dana era sempre al cancello di casa sua a sbirciare e se le facevo un cenno allora poteva venire da me.

Stufe della pittura, ci eravamo immerse nella musica. Armate di cassette malandate e un vecchio stereo con una sola cassa funzionante, ci siamo date alla danza. Avevamo architettato balletti moderni e mosse alla Shakira e Jennifer Lopez. Dana era del mio stesso anno, ma molto più sviluppata. Aveva almeno dieci centimetri più di me ed era di un biondo accecante. Le sue fossette mi davano sicurezza ed era inevitabile lasciarsi scappare un sorriso davanti a lei.

Dopo la danza siamo passate all'atletica. Abbiamo accumulato lacci e corde di vecchi pantaloni e alla fine siamo riuscite a creare una corda per attaccarla ai piedi di due sedie e fare esercizi. Eravamo brave e salivamo di livello alzando la corda sempre di più. Quando la corda era arrivata a toccare l'interno della sedia, non avevamo più altri livelli. Era ora di passare ad un altro passatempo. Erano così corte le giornate insieme a lei.

«Ti va di venire a vedere casa mia? Sai, mia mamma lavora in Russia come muratrice e con i soldi mette a posto la casa. Io vivo da sola con mio fratello da quando sono piccola. Mamma è sempre via.» «E tuo padre?» Chiesi schietta. «Lui non era sposato con mia madre. Sono stati insieme per un po', ma quando le cose sono diventate difficili si è arreso ed è sparito dalle nostre vite.» Aveva confessato con i suoi dolci occhi color nuvola, mentre ci stavamo già incamminando per la salita. «Mi dispiace, non dev'essere stato facile.»

«Mamma dice che ognuno è libero di scegliere e che l'amore non dura per sempre.» Affermò Dana divertita mentre saltellava verso la terzultima casa della strada. «Ma qui non si tratta solo di amore.» Dissi quasi sottovoce, quasi avessi perso qualche tonalità per il dispiacere. «Dai muoviti. Che poi i vicini parlano.» Infatti, aveva ragione. Se mi avessero vista entrare a casa di altri, avrebbero sicuramente pensato che stavamo tramando qualcosa come per esempio bruciare i raccolti dei vicini o peggio, essere abusata dal fratello maggiore di Dana. Mi affrettai ad oltrepassare il piccolo cancello viola ricco di ornamenti floreali bianchi e rosa. Dana lasciò sbattere il cancello alle sue spalle ed io sussultai senza volerlo.

Non ero stata abituata al caos. Quando stavo con i miei genitori, era sempre calmo, sereno. Nessuno alzava mai la voce o si permetteva di giudicare, sputandoti cattiverie in faccia. Questo era considerato essere educati in Moldavia. Ma esserlo equivaleva a mantenere costantemente una facciata. E si sa che tutti, persino l'umano più addestrato del mondo, ha delle debolezze e cede. Prima o poi lo fanno tutti.

In Moldavia la cattiveria è considerata un demone. Hai un problema di alcolismo? Ti è entrato un demone dentro e ti sta consumando l'anima. Hai una vita sessuale attiva? Qualcuno ti ha fatto il malocchio da piccola o è venuta a trovarti con il ciclo senza dichiararlo alla madre e chiederle perdono della sua "sporcizia" nei confronti della figlia ancora non battezzata. Questa era probabilmente quella che associavano a mia madre.

«Vieni entra, ma togli le scarpe perché poi devo pulire tutto io. Valentin non mi aiuta mai.» L'entrata della casa era costituita da una piccola scalinata avvolta da un arco in stile greco. Tutto bianco. Le scale erano tappezzate di tappeti che vedevo spesso cucire a mia nonna. Erano intrecciati con stoffa tagliata a strisce di ogni colore. Sembrava un arcobaleno sdraiato sul pavimento. «Wow! Questa è casa tua?» Chiesi sbalordita. Non avevo idea che in un posto del genere ci potesse essere tanta bellezza.

Il giardino intorno alla casa era pieno di peonie che emanavano un odore molto intenso. «Ah sì, li dovevo vendere al mercato, ma chi si sveglia alle cinque del mattino per prendere una banchina?» In effetti, i fiori avevano superato la fioritura da un po' e stavano lentamente scendendo nel declino della vita. «Capisco.» Dissi delusa. «Se Valentin mi desse una mano, sai quanto ci avrei guadagnato vendendo i fiori?» Disse mentre apriva la porta di casa con una chiave che sembra uscita da una favola. «Non che avessimo bisogno di soldi!» Aggiunse spalancando la porta di color nero lucido. «No, non credo che ne avete bisogno.» Dissi lentamente, esplorando con lo sguardo l'interno.

Entrare a casa di altri mi ha sempre dato una sensazione di intimità. Se sai guardare i particolari, capisci molto senza dover chiedere nulla. «Dai entra. Sei troppo lenta Khat.» Dana aggiunse questo, seguito da uno spintone che mi fece perdere l'equilibrio e balzare sul pavimento totalmente ricoperto da quei tappeti moderni. «Oh mamma, scusami. Sei leggera come una piuma. Vuoi mangiare qualcosa?» Chiese tirandomi quasi di peso da terra.

«No, grazie. Voglio solo dell'acqua.» Insicura, mi avviai per la casa, timida ma incuriosita da quell'ambiente tanto moderno. Il corridoio divideva in due parti la casa. Subito sulla destra, appena entrati, si trovava il salone con un divano al centro e uno stereo sulla mensola attaccata al muro. Era minimalista come ambiente, ma le fotografie regnavano in tutta la casa. Dana arrivò con il bicchiere d'acqua e me lo porse. «Vieni ti faccio vedere il resto.»

Da quel momento in poi, il resto dei miei fine settimana estivi li avevo passati a casa di Dana, ma non mi aveva mai chiesto di restare a dormire. Ciò mi aveva tolto un peso enorme perché sicuramente avrei rifiutato. Solo qualche anno dopo però, la nostra amicizia prenderà un'altra piega.

Ritorno alla realtà e mi accorgo che in lontananza si intravede la nonna che torna dal pascolo con il suo gregge. Realizzo che ho passato abbastanza tempo seduta sulle scale e non ricordo perché fossi lì e non insieme alla nonna.

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