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Questa volta Dazira sapeva che la gravità della situazione, già ben oltre il limite, aveva toccato l'apice.

Quello steso a terra, immerso nella pozza di sangue, non era un corpo qualsiasi. Era il corpo di lord Tisdale.

Dazira scoppiò a piangere e quasi non si rese conto di dover scappare da quel maledetto corridoio. Presto sarebbe giunta la ronda notturna e, questa volta, le guardie sarebbero state due: anche volendo, non avrebbe avuto scampo.

Si sentiva stremata, senza forze. Ma cosa diavolo ci faceva lord Tisdale da solo, nei corridoi che dividevano gli appartamenti degli inservienti, di notte?

Questa, di certo, sarebbe stata la morte che l'avrebbe portata alla gogna.

Si infilò in un corridoio dove sapeva di non aver mai visto guardie e lo percorse in tutta fretta. Se mai avesse incontrato qualcuno lì, non avrebbe avuto un solo posto per nascondersi.

Giunse alla fine del passaggio e si trovò sul corridoio principale, ben illuminato da delle torce a muro.

Accelerò il passo, per quanto possibile. Il suo respiro era affannato e, forse, stava facendo più rumore del solito.

Aveva fatto poche decine di metri quando udì dei rumori dietro di lei. Le guardie stavano arrivando nella sua direzione. Iniziò a correre e s'infilò dentro la prima nicchia contenente una statua che trovò.

Aveva percorso centinaia di volte quei corridoi, sapeva benissimo che c'era.

Ad un tratto la torcia sul muro di fronte, a pochi metri da Dazira, evidenziò un'ombra inaspettata. L'ombra precedette di poco la figura di un uomo con una sporca casacca scura.

Da dove è sbucato, questo? Proprio non l'aveva sentito arrivare, e giungeva dalla parte opposta alla sua.

La figura si fermò esattamente davanti alla cavità del muro dove si era nascosta. Dazira trattenne il respiro. L'uomo sembrò non far caso a lei.

Ma, ad un tratto, si girò. Come se sapesse esattamente dove fosse, come se si aspettasse che lei fosse lì.

A Dazira sembrò fermarsi il sangue nelle vene mentre un peso sul petto sembrava averla immobilizzata.

Per qualche secondo, i due rimasero a fissarsi. Alla debole luce delle torce Dazira riuscì a distinguere bene gli occhi di quell'uomo che, con sguardo severo, se ne stava immobile a fissarla, con una lunga cicatrice che gli attraversava il sopracciglio e metà dello zigomo e che gli dava un'aria ancora più inquietante.

Dagli occhi di Dazira tornarono a sgorgare le lacrime. Ma, a dispetto di quanto la ragazza si aspettasse, il ragazzo riportò lo sguardo avanti e s'incamminò nella direzione opposta alla quale era venuto. Come se nulla fosse accaduto.

Come se fosse normale trovare una cortigiana nel cuore della notte che si nasconde nei corridoi.

Dazira, però, sapeva. Sentiva che lui non doveva essere uno stupido, lui sapeva. O, presto, se ne sarebbe reso conto in ogni caso. Era ancora troppo vicina al luogo dell'omicidio.

Presto, tutti avrebbero saputo.

Non seppe nemmeno lei come ci riuscì, ma arrivò nelle sue stanze senza essere vista, fatta eccezione per quel giovane uomo dallo sguardo severo.

Si fiondò dentro senza nemmeno guardare, senza rendersi conto che Ladon, davanti a lei, la stava fissando con gli occhi colmi di dolore, rabbia e timore.

Dazira, in un secondo, capì che per lei era finita e scoppiò in un pianto a dirotto senza che l'uomo avesse nemmeno parlato. In lontananza, si udì l'allarme delle guardie che avevano trovato un nuovo corpo.

Ladon scosse la testa e si accasciò a terra. «Ho perso uno dei miei taccuini» disse in tono piatto, ma con lo sguardo perso nel vuoto «sai dove può essere finito?»

La ragazza, di fronte a lui, con la schiena ancora appoggiata alla porta, iniziò a tremare in preda ad un esaurimento nervoso. «L'ho... l'ho preso io».

A differenza di come avrebbe reagito solitamente, Ladon non commentò il piccolo furto della ragazzina. Si passò una mano sui capelli lasciandola, poi, cadere a peso morto lungo il fianco, come se fosse stato sfinito.

«Dazira... io... Chi è, questa volta?»

Dazira sgranò gli occhi e si lasciò cadere lungo la porta, mentre i goccioloni le rigavano le guance, ma non rispose. Una morsa al petto sembrava impedirglielo.

«Dazira» la chiamò ancora l'uomo dai capelli brizzolati. «Dimmelo!» la voce del bibliotecario si alzò e Dazira tornò a singhiozzare, al punto che ormai aveva gli occhi così rossi che l'azzurro delle sue iridi spiccava in maniera quasi innaturale.

«No!» urlò lei tra le lacrime mentre il suo corpo accasciato tremava continuamente.

Ladon scattò in piedi, quasi avesse ripreso le forze e la puntò con uno sguardo carico di un dolore che la ragazza non aveva mai visto. «Chi diavolo hai ammazzato, Dazira?» urlò l'uomo in tono disperato «Che diavolo stai facendo?»

«Non è colpa mia!» rispose strillando a quel punto la ragazzina. «Non è colpa mia... lo giuro, non sono io! Io... tutto diventa nero e poi è lì, morto...» A quel punto, i singhiozzi divennero vere e proprie saette di dolore che le trafiggevano il corpo e, di rimando, ferivano anche quell'uomo di mezza età, quell'unica persona che lei riusciva a chiamare famiglia.

Ladon rimase a guardarla piangere a lungo. Ma non riuscì ad abbracciarla; in qualche modo si sentiva ferito anche lui, ben sapendo che l'unica colpa della ragazzina era stata quella di essere curiosa.

«Lo so» affermò l'uomo, infine, con una nota leggermente più calda nella voce.

Dazira si avvicinò e si lanciò tra le braccia di Ladon che, inizialmente, la accolse scostante. Poi il timore che lei gli facesse qualcosa sembrò allontanarsi e lui la strinse a sé per qualche minuto, mentre nella stanza tornava il silenzio.

«Non ce la faccio più!» sbottò Dazira cingendo con le braccia la vita gracile del bibliotecario «Ladon, ti prego... aiutami!»

L'uomo sospirò profondamente, staccandosi da lei. Non poteva. Non poteva rendersi complice. Se lei ci riusciva, lui non ce la faceva a sopportare tutti quegli omicidi sulla coscienza.

«Non posso aiutarti».

La ragazza ricominciò a tremare in preda ai singulti. «Lo... lo dirai al re?»

«Lo dirò al principe. È tutto troppo grave perché resti così com'è!»

«Mi uccideranno» affermò lei prendendogli una mano mentre lo guardava con l'espressione sofferente.

Ladon si alzò e si diresse alla porta. Aveva deciso: non poteva venire meno al suo compito, non poteva rendersi complice di Dazira, per quanto le volesse bene. Doveva solo provare a parlare con il principe e sperare che accogliesse la sua proposta.

Dazira era in un mare di guai, ma, questa volta, Ladon non era certo di poterla aiutare.

Si fermò a qualche passo dalla porta e si voltò di nuovo verso di lei: «Ah... il pugnale... nascondilo. Mettilo in un posto dove nessuno lo troverà e non farne parola con nessuno. Nemmeno con Ernik».

«Ladon... ti prego... non voglio morire!» lo supplicò la ragazza che, immobile, sembrava l'emblema del supplizio.

«Non morirai».

Poi la porta si chiuse dietro di lui e nessuno rientrò prima di un tempo indefinito.

Quando una decina di guardie irruppero nell'appartamento la trovarono nel suo letto, con lo sguardo perso e gli occhi lucidi.

Dazira non seppe definire i tempi, i luoghi e le esatte parole di coloro che parevano girarle intorno. Percepiva solo il loro odio. E una sorta di liberazione da quel fardello che, oramai, era diventato qualcosa di insopportabile.

LA QUINTA LAMA (I) - L'assassinoDove le storie prendono vita. Scoprilo ora