Capitolo 59.

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Quando Mattia aprì gli occhi, sei giorni dopo l'incidente, impiegò parecchi minuti per capire dove si trovasse e cosa gli fosse successo. Sentiva dolore in ogni parte del corpo anche stando fermo e le tempie gli pulsavano come dei tamburi percossi. Aveva in bocca il sapore di amaro e le labbra erano così secche da sembrare di carta vetrata. Non aveva idea di quale giorno fosse, se era mattina, sera o notte; se quella era la vita vera oppure solo un sogno un po' distorto ma dalle fattezze simili alla realtà. Non sapeva niente di tutto questo e non aveva nemmeno la minima idea se avrebbe potuto sopportare una verità diversa da quella che gli si prospettava davanti.

Con uno sforzo magistrale provò a sbattere le palpebre su e giù e a muovere le dita della mano: sull'indice sinistro aveva una mollettina di plastica che emetteva una luce violacea, mentre dal polso e dal braccio spiccavano degli aghi conficcati nella pelle. Erano tutti collegati a dei tubicini trasparenti che contenevano strani liquidi maleodoranti.

Formulò una qualche parola, ma gli uscì fuori solo un mezzo gemito roco. La bocca era completamente secca e la gola gli bruciava, come se non avesse fatto altro che urlare a squarciagola nei giorni passati. Si sentiva a pezzi, anche se era rimasto sdraiato a dormire.

Dal momento che il tentativo di parlare era andato in fumo, Mattia provò a tirarsi su sul letto, per chiarire la confusione cosmica che aveva nella testa. Ma il gesto venne bloccato in partenza dal suo sistema nervoso: non appena cercò di piegare i gomiti, sentì una fitta di dolore partirgli dalla schiena fino ad arrivare al costato. Fu talmente forte da fermargli il respiro per qualche secondo.

L'elettrocardiogramma accanto al suo letto cominciò a segnalare dei battiti accelerati e un campanello fuori da quella che sembrava essere la stanza di un ospedale prese a squillare all'impazzata nel mezzo del corridoio.

Nemmeno tre minuti dopo un'infermiera entrò di corsa, spalancando la porta, e gli si mise di fianco, con un'espressione allegra e sorpresa. «Ti sei svegliato finalmente! Ti stavano aspettando tutti.»

Mattia aggrottò le sopracciglia e chiuse di nuovo gli occhi. Il bip meccanico iniziò a calmarsi. «Dove... siamo?»

«Siamo in ospedale e questa è la tua stanza. Sai dirmi come ti chiami?»

Lui aggrottò le sopracciglia e reclinò il volto di lato, verso una finestra enorme e illuminata. Fuori era giorno e dalle nuvole trapelavano dei pallidi raggi di sole. Forse era mattina.

«Mattia...» mormorò in risposta. «Sono Mattia Silvestre.»

«Molto bene.» L'infermiera sorrise e appuntò dei dati sulla cartella clinica poggiata in fondo al letto. «Ricordi altro di quello che ti è successo, Mattia?»

Mattia rimase in silenzio e chiuse gli occhi.

La festa al Club, Nadia, l'alcool, la lite, Diego, i fari, il furgone... L'incidente. Sì, ricordava tutto, anche se i flashback andavano e venivano nella mente sotto forma di scie confuse e perturbanti.

«Ho perso il controllo della macchina...» rispose alla donna dopo qualche minuto di attenta riflessione «Sono rimasto paralizzato?»

«Sei stato molto fortunato, sai? La tua colonna vertebrale è intatta, ma quel trauma cranico ci ha dato un bel filo da torcere.»

«Sento male ovunque...»

«È normale. Hai diverse fratture nel corpo, ma niente di irreparabile. Ti servirà del tempo per guarire e un lungo periodo di riabilitazione», lo tranquillizzò l'infermiera. Riempì un bicchiere d'acqua e glielo avvicinò. «Prova a bere un po' d'acqua. Sei stato in coma per diversi giorni, quindi avrai sicuramente voglia di bere. Ma sorseggiala piano, o potrebbe darti la nausea.»

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