«Mi dispiace», le ripeto, «ero fuori di me. Non avrei dovuto trattarti in quel modo».

Lei solleva gli immensi occhi marroni, lucidi di lacrime. «Hai detto tutto a Björn?».

Scuoto il capo. «Qualcuno mi ha fermato».

Le sfugge un singhiozzo strozzato. «L'ho sperato tanto. Lui è stato qui».

«Ti ha detto qualcosa?».

Scuote il capo. «Si è comportato normalmente. È solo venuto a prendere la sua roba, perché starà via due settimane».

«Dove andrà?».

«In Italia», mormora, «dice di avere un grosso affare per le mani».

«Brutto bastardo», borbotto.

Lei mi prende il viso tra le mani. «Mi dici perché hai reagito in quel modo?».

Inspiro aria dal naso e la ributto fuori. Non vorrei parlarne, ma dopo che l'ho trattata in quel modo, Carmen merita una spiegazione. «La ragazza che il bastardo ha investito, si chiamava Elsa Iger ed era la mia fidanzata di allora. Lei era incinta».

Carmen strabuzza gli occhi e alcune lacrime si affacciano sul suo bel viso. «Il bambino...».

«È morto con lei», confermo.

Lei sbatte le palpebre diverse volte, ricacciando indietro le lacrime, ma la voce incrinata la tradisce. «Io...oh, mio Dio...io non lo sapevo».

«Non avresti potuto. Sei la quinta persona al mondo che lo sa».

«A-adesso? Che farai? Aspetterai il ritorno di Björn?», balbetta.

La stringo forte a me e lei si accoccola sul mio petto. «So che è pericoloso, ma devi dirmi dove sono le prove di cui mi hai parlato».

Carmen inizia a tremare. «Se Björn lo scoprisse...».

«Sarà già in manette, quando lo farà. Fidati di me».

«Non è così semplice, lui...».

«Hans, il mio avvocato, mi ha promesso che parlerà con il giudice e farà riaprire il caso di Elsa Iger. Quando tu mi avrai fornito quelle fantomatiche prove, potremmo incastrarlo e lui finirebbe col vivere il resto dei suoi giorni in gattabuia», la interrompo.

«Lui ha moltissime conoscenze un po' ovunque. La spunterà anche stavolta».

Sto per negare. Sto per dirle che se non dovessero arrestarlo, lo ucciderò con le mie stesse mani, ma c'è un dettaglio della sua frase che mi ferma. «Anche stavolta?» le chiedo, «Vuol dire che...».

«Vuol dire che è un criminale, Alexander, penso tu l'abbia già capito».

Le sue parole mi danno la stoccata finale, per cui ogni goccia di stanchezza scivola via dal mio corpo, per far spazio all'adrenalina. Sciolgo il nostro abbraccio e dopo essermi alzato dal letto mi accendo una sigaretta. «Adesso dobbiamo parlare seriamente e voglio guardarti in faccia», le dico, dopo aver aspirato una boccata di fumo.

Lei, sospira stizzita e si siede, appoggiando la schiena alla testiera del letto. «Mio marito è pericoloso, te l'ho già detto».

«E io ti ho già detto che il coraggio di affrontarlo non mi manca».

Lei sbuffa. «Smetti di pavoneggiarti e metti in moto il cervello, per favore. Non posso darti prove certe, ma so che è un uomo senza scrupoli. Fin dal momento in cui l'ho conosciuto la cosa per me è stata chiara: meno fastidio gli avrei dato, meglio sarebbe stato per me».

«Ma l'hai sposato».

«Ma l'ho sposato», ammette, ad occhi bassi.

«Allora sei tu quella che deve mettere in moto il buon senso».

Lei solleva gli occhi, furente. «Hai mai sofferto la fame?».

Ci sono stati momenti in cui la mia famiglia se l'è vista brutta, proprio quando stavo con Elsa, ma mai fino a non avere cibo nel piatto. «No, mai», ammetto sentendomi un pivello viziato.

«Io sì», conferma, «hai idea di cosa significhi non riuscire a dormire per i crampi allo stomaco? Oppure cosa significhi soffrire di dissenteria perché l'acqua che bevi non è potatile? Le infezioni? Hai mai avuto un'intossicazione da cibo scaduto?»

«No».

«Hai idea di cosa significhi lottare a mani nude con un ragazzo più grande di te, per rubargli un tozzo di pane duro e ammuffito?».

Nella mia mente si affollano diverse immagini. Una bambina denutrita, sporca e con gli occhi enormi evidenziati dal viso troppo scarno che tenta di abbattere un ragazzo per rubargli il pane, o che fa l'elemosina o peggio ancora che si contorce sul pavimento per la fame. È per questo che ai suoi attacchi rispondo a testa bassa. Non riesco più a sentirla. «Basta, ti prego».

Lei scuote il capo, con un sorriso mesto. «Già, non puoi sentirmi. Nemmeno io. Quel che ho passato è un brutto ricordo e sono la prima a non volerlo rinvangare».

Spegno la sigaretta e tento di recuperare un po' di lucidità. «Allora smetti di dirmi queste cose e dimmi perché dovrei avere paura di quell'uomo».

«L'ho visto uccidere a sangue freddo. Questo potrebbe farti desistere?», mi sfida, rabbiosa.

«Chi?».

Lei si porta le ginocchia al petto. «C'era un uomo, a Caracas. Un giorno tentò di stuprarmi, ma Björn era lì nei dintorni. Ha estratto una pistola dalla tasca, come se nulla fosse, e gli ha sparato dritto in testa. Poi mi ha sorriso, si è asciugato il sangue che gli era schizzato sulla faccia e infine mi ha fatto un gesto con la mano, invitandomi a seguirlo», sospira amaramente, «quell'uomo era un rifiuto umano, ma non avrei mai voluto che morisse, eppure ho dovuto scavalcare il suo corpo esanime per seguire quello che poi sarebbe diventato mio marito».

«È così che l'hai conosciuto?».

«No. L'avevo già visto prima, era un habitué del posto».

«Quale posto?».

Carmen si alza di scatto da letto, mettendosi nervosamente i capelli dietro le orecchie. «Non è importante», afferma senza guardarmi.

Decido per ora di assecondarla, perché è stata una giornata orribile. «Cosa dovrei fare, secondo te?».

Lei sospira. «Lascia perdere, ti prego».

Mi avvicino a lei, forse un po' più minaccioso di quanto dovrei. «Mai. Avrò giustizia per Elsa, fosse l'ultima cosa che faccio».

«Tu non hai idea...».

«Già!», esclamo, «Non ne ho idea, perché tu sei così misteriosa!».

«Cosa c'entro io?».

«Non vuoi che vada contro tuo marito, ma non vuoi nemmeno dirmi come l'hai conosciuto e perché lo temi così tanto!», urlo.

Stringe i pugni sui fianchi. «Non ne hai il diritto!», sbraita.

«Ah no?».

«No!», esclama tra le lacrime, «Sei piombato in questa casa così all'improvviso e pretendi che non solo lasci mio marito per te, ma anche che ti aiuti nella tua battaglia contro i mulini a vento! Perché è di questo che si tratta: una battaglia persa in partenza, inutile, che perderai!"», la voce le si incrina e da arrabbiata passa a triste, «e oltretutto, in meno di un mese mi hai fatta innamorare, dannazione! Non mi era mai successo in trentacinque anni di vita, ma tu in fottuti trenta giorni ti sei insinuato nella mia mente e non ne sei più uscito! Capisci perché te lo dico, adesso?».

La sua confessione mi spiazza. Non sono tipo da cuoricini e canzoncine, ma saperlo in questo modo mi destabilizza. Siamo entrambi distrutti dalle circostanze e non possiamo goderci quello che sta nascendo.

Mentre sto lì impalato, fermo come una statua di sale, lei scappa via.

Ed io non ho la forza per seguirla.

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