Chelsea Hotel

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Presi il tram e scesi al centro commerciale. Vi entrai, feci un salto in qualche negozio, provai un paio di vestiti, chiesi informazioni alle commesse, così per il gusto di far scorrere il tempo. Scoppiava di gente e tutti correvano da qualche parte carichi di buste e qualcuno con liste della spesa in mano ancora molto lunghe. Sembravano tutti felici, anche lì, illuminati dalla luce viva ma finta dei negozi. Guardai l'orologio: era ancora presto. Mi ero già stufata dei negozi e dell'odore da fast food del centro commerciale. Mi venne voglia di andare all'aeroporto, di guardar volare qualche aereo, di fantasticare un po' ad occhi aperti ma mi sembrò un po' complicato arrivarci e così mi diressi verso la stazione. Adoravo i posti in cui la gente parte, si saluta e sparisce chissà dove. Non c'era molto movimento. Mi fermai davanti al tabellone delle partenze. Lessi il nome di qualche città, vidi le fermate intermedie, immaginai come potessero essere quei posti.


Guardai un treno partire e un altro arrivare. Un nonno che mostrava la scena al nipotino. Degli operai al rientro dal lavoro. Tre uomini d'affari che correvano per prendere una coincidenza. Due innamorati che si salutavano. Lui forse partiva per chissà quanto, era carico di valige e lei lo salutava con gli occhi lucidi. Lui diceva che non doveva essere triste, che l'amava, che si sarebbero rivisti presto e lei diceva di sì, che al ritorno si sarebbero amati ancora di più,ma intanto piangeva.


Entrai nel bar della stazione e ordinai un cappuccio. Mi sembrava tutto familiare, una scena vista mille volte. Il getto di vapore che si leva dalla macchina del caffè, il vecchio barista che armeggia di fronte a una pila di tazze ammucchiate ad asciugare in una nuvola di vapore, dei signori anziani che giocano a carte e che quando entro richiudono il ventaglio di carte contro il petto e si voltano a guardami allungando il collo e chiedendosi che caspita ci faccia una ragazzina così giovane, un sabato sera qualunque, al bar della stazione. È carina, elegante e non ha bagaglio. Che ci fa? Forse  aspetta qualcuno? Forse ha deciso di partire all'improvviso per scappare da qualcosa? Mi fissarono un po' per capire, poi tornarono alle loro carte. Al tavolo accanto c'erano due ragazzi impegnati a sorbire il colmo dei loro boccali di birra e a compilare nel frattempo una schedina.


Entrarono due ragazzi. Una coppia di fidanzati, lei biondina con il naso a patata, lui uno spilungone con pochi capelli. Si sedettero a un metro da me e allora tesi l'orecchio per ascoltare cosa si dicevano. Ho sempre amato ascoltare i fatti degli sconosciuti, soprattutto perché poi ho la possibilità di immaginare cosa è successo prima e cosa accade dopo. Mi piace perché ho sempre pensato che la vita fosse il romanzo più incredibile e imprevedibile del mondo. Litigavano. Naso a Patata diceva che era finita, che ormai non si sentiva più amata e che anche l'altra sera davanti a tutti, lui aveva fatto capire che ormai lei non era più importante. Lo Spilungone era paonazzo in volto, diceva che non era vero, che non sapeva di che cosa stesse parlando, che non era giusto chiudere una storia così, dopo tre anni all'improvviso. Naso a Patata disse che avrebbe dovuto pensarci prima. Lo Spilungone allungò le mani, prese le sue, le accarezzò, chiese di ricominciare da capo, di riprovarci, che si poteva andare ancora avanti. Naso a Patata allora disse che non lo amava più, che aveva un altro e che era davvero finita. Si alzò e se ne andò. Lo Spilungone rimase per un po' immobile a fissare il vuoto, poi prese il portafoglio, tirò fuori una banconota, pagò le due bibite e si allontanò lungo il fascio dei binari.


Alla radio dettero Chelsea Hotel cantata da Lana Del Rey. Guardai l'orologio: era quasi orario. Lasciai la stazione pensando al cinema, a Monica, alla serata che mi aspettava. Profumava tutto meravigliosamente di vita.

Little girl blueWhere stories live. Discover now