CAPITOLO 19 - ALLO SCOPERTO

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«Fallo di fronte a me» comandò il rhetor «E sii convincente.»

Non ricordo quali parole usai. L'unica memoria che possiedo è la risposta di Palaimon: «Domani sarò nel Foro» dichiarò, sollevandomi il mento «Domani ti ascolterò e dimostrerai che un apprendista laborioso può essere anche un ottimo avvocato. Io lo so, Virgilio, e domani lo saprà pure lui.»

Epidio non si preoccupò di ribattere – aveva solo fretta di tornare a scuola – e io, bofonchiato un maldestro "grazie", seguii il rhetor in silenzio.

"Una prigione" pensavo, attraversando il porticato dell'accademia di fronte agli occhi curiosi dei compagni. Mi additavano tutti e i loro bisbigli furono un tormento fino al calar del Sole, quando divenni preda delle ombre. Ciascuna sagoma assumeva le sembianze di un nemico o di una scelta sbagliata e, se abbassavo le palpebre, continuavo a udirne le voci. Esasperato, uscii nel cortile per ripassare l'orazione. La ripetei ancora e ancora, ma più declamavo più la mia lingua perdeva scioltezza e lo stomaco si contorceva, incapace di trattenere oltre le angosce accumulate durante il giorno. Dopo un'interminabile notte di pianto e frustrazione, giunse il momento di andare nel Foro.

Labbra livide, occhiaie, fronte imperlata di sudore e sensi annebbiati. Ecco come mi presentai davanti al pretore. La toga che indossavo non mi rendeva un avvocato; al contrario, sembravo lì per errore.

Finsi di non vedere né Palaimon né Cornelio, ringraziai gli Dei per aver allontanato il nonno da Roma e rivolsi a malapena un saluto al mio assistito. Intorno a noi, statue e bassorilievi facevano da muti testimoni e la gente si radunava a poco a poco, alcuni accomodandosi sui sedili disposti per l'occasione, altri restando in piedi.

Il pretore e i giudici ci scrutavano con supponenza; figure marmoree, dai capelli canuti e le anime inaridite. Chissà se rammentavano il primo caso a cui avevano preso parte. "No" conclusi, incrociando i loro sguardi vuoti "Stanno già pensando agli ozi pomeridiani". Nemmeno l'avvocato dell'accusa pareva coinvolto: sapeva di perdere e, forse, non aveva speso che una manciata di minuti per preparare l'arringa. Tuttavia, appena cominciò a parlare, riconobbi l'eloquenza di un professionista.

"Devo restare calmo!" tentai d'incoraggiarmi "Un'orazione appassionata non avrà la meglio sulla Verità". Poi, l'attenzione mi cadde su Epidio. Dialogava col fratello del mio assistito e tra loro c'era Marco, come sempre in abiti formali, impeccabile nella postura e nei modi. Parlano di te, sibilò una voce, insinuandosi nella mia testa, Si chiedono quanto sarai ridicolo.

Intanto, l'avvocato dell'accusa incalzava più impetuoso di una tempesta, Cornelio aveva i muscoli tesi quasi dovesse discutere lui stesso il caso e Palaimon lanciava sguardi di sfida al rhetor, aspettando il momento in cui avrei dato prova del mio valore.

"Il mio valore" inspirai "Non difendo soltanto un cliente: difendo il mio valore". In un battito di ciglia, ripercorsi ogni cosa: le risate ad Andes, la violenza del maestro Ballista, i miei amici, il tempo con Sabino, le lezioni in accademia, gli esercizi di pronuncia.

Sai chi sei.

Dimostralo.

Ma le parole rimasero sigillate nel petto.

«Cosa succede?» il mio assistito era attonito e tra la folla si levò un brusio sempre più intenso.

"Parla, parla, parla!" andava bene tutto, anche una frase banale, anche pronunciata in un pessimo accento provinciale. "V'imploro, Dei del cielo, non fatemi questo!" mi torcevo le mani, biascicando sillabe incomprensibili e ondeggiando avanti e indietro.

«Il giovane è ubriaco?» ringhiò uno dei giudici, spazientito.

Cornelio voleva intervenire e, quando un ragazzotto vicino a lui soffocò una risata, gli tirò un pugno nello stomaco. Palaimon, di contro, si lasciò inghiottire dalla gente, incapace di assistere alla mia umiliazione.

Acheronta MoveboWhere stories live. Discover now